Pietro Salemme

Psicologo Psicoterapeuta a Roma

Il disagio psichico e l’isolamento da pandemia

 

di Pietro Salemme

Quando si pensa il disagio psichico subito un’immagine può farsi presente alla nostra attenzione o in forma di un qualche ricordo visivo o in forza di un immaginario collettivo che nel tempo della storia umana si è sedimentato intorno alla follia: la condizione di isolamento di una persona che intorno a sé ha un vuoto di rapporti o a cui è difficile per gli altri avvicinarsi. In associazione a tali immagini è possibile sempre notare il misterioso fenomeno di beneficio catartico nella comunità umana che liquida così il male in uno spazio remoto. In verità gli studi di Michel Foucault, che ha delineato nella sua Storia della follia un excursus di come nelle epoche siano cambiati i sistemi di internamento, o la ricerca sul campo di Erving Goffman, che nel suo Asylums descrive, dopo essersi introdotto nel manicomio sotto le mentite spoglie di degente, i movimenti di una micro-societasinterna dotata di vantaggi e servizi non forniti ufficialmente ma derivanti da reciproche identità e ruoli che l’istituzione cuce addosso al malato e dopo, infine, gli studi antropologici di Thomas Szasz sulla costituzione di un mito sociale della malattia mentale, è emersa chiaramente l’azione del meccanismo di capro espiatorio, in cui il paziente psichiatrico è posto e con il quale è espulso dal consesso sociale.

Sarà appunto la visionarietà di Franco Basaglia a ispirare la rivoluzione della legge 180, che non solo considera chiusa la lunga stagione dell’internamento con l’abbattimento simbolico delle mura di cinta dell’ospedale psichiatrico di Trieste e il corteo di degenti e ospedalieri che sfila lungo le vie della città – è il 1973 –, ma rovescia la prospettiva della cura ponendo al centro il ‘malato’ come soggetto e non più la malattia. Con la legge di riforma si aprono le strutture intermedie sul territorio, le comunità nelle 24 ore, i centri diurni dove si conducono attività terapeutico-riabilitative e presidi che sono in osmotica relazione con un territorio che entra dentro le strutture tramite associazioni e volontariato della società civile e accoglie la presenza dei pazienti che divengono fruitori di servizi al pari degli altri cittadini. In questi centri la cura si svolge con delle équipe integrate da una plurivocalità di saperi, non unicamente sanitari, ma con afferenze di maestri d’arte, artigiani, che possono avviare a tirocini di lavoro o fondare gruppi di esperienza terapeutica dalle più varie figure: dal teatro al cinema, dalla cucina alla tessitura, dal giornalismo alla scrittura creativa alla street art e via dicendo. In tal modo lo stigma, che istituiva con l’internamento manicomiale una sostanza identitaria potente, sia per la percezione di sé come malato sia per la percezione sociale, viene a dissolversi, perché rientra nella comunità umana ciò che è stato espunto come scarto da rimuoversi simbolicamente.

Dunque, l’internamento e l’isolamento sono compagni di sventura psicologica, poiché lo psichico ha bisogno del nutrimento vitale che trae dalle relazioni umane. L’isolamento comporta in sé l’alienazione, ovvero il presentarsi dell’alter come alienus. Il processo psicologico riguarda sia l’altro in quanto vivente, sia l’altro che è dentro di sé e che non si riconosce più dotato di caratteri di familiarità. In tal senso abbiamo visto come le misure di contenimento pandemico abbiano innalzato la richiesta di interventi psichiatrici, proprio per la dimensione di deprivazione relazionale e per la conseguente alterazione sensoriale, con i vissuti di angoscia persecutoria e depressiva della popolazione civile. Si è osservato, d’altro canto, come le comunità e i centri diurni psichiatrici, durante la pandemia, abbiano accusato in minor misura gli effetti da isolamento, poiché protetti dalla vita di scambio che all’interno si conservava. In un esempio mirabile che qui brevemente delineiamo, un gruppo di utenti del Centro diurno Antonino di Giorgio del dipartimento di Salute mentale della Asl Roma1, proprio durante gli oscuri tempi della pandemia, è riuscito a firmare la sceneggiatura di un cortometraggio dal titolo Percepire l’invisibile. Il gruppo, coadiuvato dal regista Tino Franco e dal docente di sceneggiatura Matteo Martone, con l’ausilio dell’équipe di psicologi, ha creato la sceneggiatura che narra la storia di un amore di coppia in cui uno dei due partner vive la condizione di disoccupato associata alla sua invisibilità, che l’amore però riesce ad annullare magicamente ridandogli di volta in volta corpo. Si tratta di una riflessione sull’invisibilità sociale dei senza lavoro, ma anche sulla dimensione impalpabile dello psichico che anima il mondo a dispetto di una presunta superiorità dell’oggettivazione, imperante nell’epoca contemporanea, a scapito dell’esperienza soggettiva della vita.

Il corto è stato recitato da due attori professionisti e il gruppo di utenti ha potuto seguire dal vivo la lavorazione filmica essendo presente sul set, rilasciando via via dei commenti nel backstage, che poi hanno costituito il tessuto per un docufilm a corredo del corto della durata di circa 50 minuti. Ne è nata un’opera di vasta umanità e di contributo artistico, in cui gli utenti sono entrati a pieno titolo nella veste di autori che, come tali, stanno ricevendo riconoscimenti nelle pubbliche sale italiane. Le buone pratiche che derivano dalla legge 180 possono dunque portare all’arricchimento immateriale di pensieri e visioni che procedono dai margini periferici della società, influenzandone lo sviluppo evolutivo verso forme di maturità della coscienza civile, di rispetto dei diritti umani e di orizzonti di innovazione creativa e artistica degni di nota.

Immagine: Egon Schiele, Die eine Orange war das einzige Licht 19-4-1912, 1912. Crediti: Albertina Museum, Vienna

PER SAPERNE DI PIÙ

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L’incesto e il complesso di Edipo nella visione di Jung: alcune differenze con Freud.

In un precedente articolo qui pubblicato (cfr. “Pensieri sparsi sulla Pace: il Transito”), si è affrontato il concetto di transizione, sia per ciò che riguarda il soggetto che la collettività, intesi entrambi come psichici, laddove nel primo caso il blocco del transito da una configurazione psichica ad un’altra porta al sintomo psicopatologico e alla sofferenza e quindi alla possibilità eventuale di mutamento evolutivo per il soggetto stesso , nel secondo il cambio di equilibri geopolitici e socio-culturali produce disequilibri e un’instabilità che possono esitare in guerre o portare a cambiamenti epocali migliorativi. Insomma la transizione e il transito o i transiti possono essere evolutivi ma anche distruttivi.

I Greci antichi parlavano di tragico, che non è la colpa ma è il dover attraversare le antinomie (v. qui articolo “Pensieri sparsi sulla pace…”), ovvero i contrasti polarizzati dello psichico e dell’esistenza, non eliminando uno dei due estremi, che poi ritorna come sintomo cui sottende il rimosso, ma dovendo attraversare queste stesse antinomie in transito. Si tratterebbe di un ritmo ed è proprio questo quello che Nietzsche chiama la più grande esperienza psichica che è il tragico. Il bianco e il nero, come antinomie, hanno moltissime sfumature cui bisogna porre attenzione. Eliminare una delle due parti in contrasto significa rimuovere e cadere nell’automatismo, che si ripropone fuori dalla coscienza. Restare nella consapevolezza invece e tenere al contempo le due opposte polarità presenti alla propria attenzione, significa uscire dall’automatismo e cominciare a riflettere, che non è semplice pensare ma è riflettere su di sé, ovvero il ripiegarsi del soggetto che pensa su di sé in modo riflesso. Quindi l’opportunità è quella di essere custodi del momento e della transizione attraverso l’attenzione riflessiva. Noi abbiamo rimosso le testate nucleari, ma l’automatismo porta sempre a rientrare nell’automatismo. Un equilibrio della paura fa sfuggire qualcosa, l’equilibrio migliore è la consapevolezza dell’automatismo.

Ma vediamo da vicino la dimensione umana del tragico, focalizzandone un tema universale : l’incesto. Nell’Edipo Re di Sofocle si inaugura il tema dell’incesto, della colpa, dell’inganno, del tradimento. Per Jung l’incesto è regressione alla dimensione infantile nel materno. In verità l’Edipo Re sembra essere un frammento di psicoanalisi. La concezione del problema dell’incesto in Jung è su un piano radicalmente differente da Freud. In Jung l’incesto fa parte delle immagini inconsce archetipiche e riguarda il transfert come attivazione regressiva di queste immagini, mentre per Freud padre e madre verso cui si rivolgono le istanze regressive sono reali. Il complesso edipico è universale nel bambino, solo nell’adulto diventa conflitto. Tanto più la sessualità si realizza tanto più aumenta l’affrancarsi, se non c’è libertà c’è conflitto da dipendenza! Per Freud il conflitto tra libertà e dipendenza dalle figure parentali è già nell’infanzia, per Jung per dare origine alla nevrosi deve attivarsi il complesso: cioè se per Freud c’è il fatalismo di un’attualizzazione nel passato, per Jung il complesso dell’incesto non è una realtà ma una regressione fantastica regressiva. Per essere più chiari, secondo Jung le fantasie incestuose esistono, non sono però letterali come vuole Freud, cioè rivolte alla madre e al padre che il figlio ha. Sia Freud che Jung però condividono l’idea che siano fantasie incestuose e che siano universali.

Per Jung il tabù dell’incesto è visto da un punto di vista antropologico; cioè c’è nell’uomo un’esigenza di esogamia, l’incesto al contrario è la tendenza endogama che favorisce la solidificazione del gruppo familiare secondo un impulso di conservatorismo. Per Jung è stato l’istinto evolutivo dell’uomo ad imporre l’esogamia, favorendo lo scambio genetico. La paura dell’incesto è per Jung la paura di essere divorato dalla madre, una Madre primigenia. L’individuazione diviene in tal senso una libera volontà autoaffermatrice: la madre è l’inconscio e il ritorno alla madre è la regressione come esigenza di immergersi della libido nell’inconscio. Giona vede i misteri nel ventre della balena. Per Jung l’incesto si collega così al mito dell’eroe, quale individuazione di individualità distinta dall’inconscio che è la Madre Primigenia. Nella vita adulta, quando c’è un ostacolo o si ha una vita unilaterale, cioè senza contatto con l’inconscio, ma identificati con il solo fatto conscio, si può assistere secondo Jung ad una re-immersione nell’inconscio, la libido rifluisce e riattiva vecchi problemi. Il viaggio nell’inconscio è pericoloso, può portare ad una paralisi, il soggetto non può mettere radici nel mondo e invece si appoggia al materno. L’esito positivo invece è una brama di rinascita con aspetto creativo dell’inconscio, il soggetto trova qualcosa di utile per sé e il dialogo tra l’Io e l’inconscio può procedere senza fine. Quindi mentre l’endogamia è un restare bambini, essere contenuti dall’inconscio, l’esogamia è la volontà di individuazione. Il superamento dell’Edipo è la possibilità di attingere la creatività senza negarne la pericolosità. Quindi in quest’ottica l’incesto, a livello di fantasie regressive, si pone come un nucleo del processo di individuazione.

Se per Freud la teoria psicoanalitica corrisponde alla verità, per Jung la sua teoria è una delle visioni possibili; se per Freud l’uomo è il risultato degli impulsi inconsci, per Jung l’uomo è il luogo non definitivo di indeterminazione non adattiva ma che ospita la contraddizione abitandola senza cedere a nessuna delle parti. Abitiamo un ossimoro: nella luce l’ombra.

Fare un film insieme: Cura di Gruppo, Azione!

Come si vede in queste immagini del servizio di “Medicina Trentatré”, rubrica del Tg2 Rai (https://www.pietrosalemme.it/wp-content/uploads/2022/10/19b40de3-2a61-48b5-b07c-831e7e137e34.mp4), un gruppo ha in sé moltissime potenzialità di sviluppo creativo e quindi curativo. Infatti la dimensione della creatività può avvenire nella solitudine e nel raccoglimento ma anche nella condivisione relazionale. Prima di tutto è necessario costituire un gruppo tramite la partecipazione dei singoli ad un progetto che il gruppo ha in animo di realizzare. Questo gruppo aveva il fine di riunirsi una volta alla settimana per vedere dei film insieme, commentandoli in una discussione aperta alla fine di ogni proiezione, che questa fosse presso il Centro terapeutico o che avvenisse nei cinema della capitale. Col tempo il gruppo stesso e i singoli membri hanno maturato una competenza filmografica di circa dieci anni e la consapevolezza di tale capacità di orientamento tra i generi di varie pellicole lo ha condotto a decidere di intraprendere il percorso di formazione in arti cinematografiche. Si è cercata un’associazione sul territorio limitrofo che potesse fornire l’aiuto di un docente in regia e di un docente in sceneggiatura, e si è così iniziato il corso che è durato due anni. Via via che i pazienti frequentavano il corso di regia e sceneggiatura, coadiuvato da chi scrive in qualità di psicoterapeuta, è emerso il desiderio unanime di cimentarsi nella scrittura di una sceneggiatura di un cortometraggio, recitato da attori professionisti. Si è poi scelto di girare anche un documentario sul backstage durante la lavorazione del corto, narrando la storia del gruppo e dei singoli e il loro concepimento di una scrittura di copione sul tema del lavoro, dell’amore e dell’invisibilità. Ne è nato un docufilm di circa 50 minuti che sta ora girando per le sale della città riscuotendo un discreto successo di gradimento, dal titolo “Percepire l’invisibile“, di cui qui di seguito si può vedere il trailer : https://vimeo.com/572069254.

Ma in cosa consiste la cura per mezzo della creatività? La prima questione che un gruppo deve affrontare è la possibilità di essere costituito come gruppo di lavoro, in tal caso il lavoro essendo la dedizione del gruppo alla visione e condivisione di immagini filmiche. La discussione che segue la proiezione, il classico “dibattito” di morettiana memoria, consiste nel prendere la parola per esprimere in gruppo emozioni, pensieri, ricordi e analisi critiche sulla struttura stessa del film, anche attraverso comparazioni con altre pellicole o con romanzi letterari o con opere pittoriche artistiche. Questa fase è delicata e necessita di un conduttore che possa facilitare gli scambi interattivi, favorendo il più possibile la comunicazione, assicurando il livello di democrazia psichica secondo cui ognuno dei membri ha diritto ad esprimersi o a stare in silenzio ed ascoltare, cercando lo stesso conduttore di attenuare le asperità di confronto, laddove queste si sviluppino, o di mantenere e custodire la capacità del gruppo di dialogare nella tolleranza. Si tratta di attivare una dimensione di ascolto dell’altro, ovvero un gruppo che ascolta chi abita nel suo spazio e che si ascolta come sé stesso ovvero come altro da sé, che ospita cioè al suo interno le immagini inconsce che vengono alla luce della consapevolezza tramite il linguaggio narrativo. Questa dimensione di ascolto come assetto in cui entra il gruppo ha a che fare con la creatività, nel senso che il percepire stesso dei contenuti per immagini assume in gruppo caratteristiche creative nel momento stesso in cui viene espresso e condiviso. I processi di invidia e conseguente attacco sono poi attenuati dall’azione terapeutica che il conduttore svolge attivamente. Ma pian piano il gruppo stesso inizia a disegnare i contorni di quella che è l’opera che vuole produrre.

In che senso la creatività è terapeutica? Nel momento in cui il singolo membro del gruppo concepisce una visione o uno spunto narrativo che può essere espresso, proprio in quell’istante avverrebbe il primo passo del processo creativo, il quale riguarda l’atto percettivo stesso. In effetti l’atto percettivo stesso è la nascita creativa di sé stessi come percipienti, ovvero il percepire stesso del bambino è sentito come meravigliosa scoperta del mondo nell’istante in cui esso sente di creare ciò che, ad esempio, vede (cfr. Winnicott). Dunque il pensare per immagini, tipico del processo di condivisione di un gruppo di lavoro, è in sé atto creativo. Quando il soggetto pensa in gruppo insieme ad altri soggetti che come lui riflettono, allora può entrare in ascolto di sé stesso accorgendosi di creare delle immagini relative o legate al discorso, secondo la tecnica dell’associazione libera di idee. Nella fase di “brain storming” l’atto creativo è porto al gruppo che ascolta e si alterna con altri atti creativi. In quel passaggio il soggetto inizia a godere di un rispecchiamento che consiste nel ricevere un’immagine di sé a feedback che fonda l’atto di specularizzazione di un sé agente, nel senso di pensante. In effetti il pensare si configura come atto, come un’azione che viene percepita dal soggetto, che nel momento in cui la forma dentro di sé può percepirla in vario modo e con livelli di consapevolezza variabile, ma essenzialmente la realizza nell’istante in cui la può comunicare agli altri in ascolto. A questo punto accade un ulteriore processo, ovvero quello che porta al confronto con altri contributi diversi. Il momento creativo sposta il suo focus di compimento maggiormente sul gruppo che deve integrare le diverse forme di visione per giungere ad un’opera che sia plurivocale e al contempo univoca. Ogni opera d’arte infatti contiene in sé una plurisignificazione e multistratificazione di senso che poi si moltiplica ulteriormente a seconda del vissuto che fa scaturire nel fruitore. Quindi possiamo dire che questa esperienza di creatività di gruppo, oltre a significare un potente ri-specchiamento della capacità creativa del singolo che, secondo la lezione di Lacan, grazie al gruppo con funzione simbolica materna, riceve la propria immagine riflessa mentre crea, allo stesso tempo questa stessa esperienza di creazione promuove un ampliamento del campo della co-esistenza cioè dell’essere insieme agli altri, ovvero contribuendo all’esistere nel mondo degli altri. Infine ciò che risulta terapeuticamente importante sembrerebbe essere il processo di scelta che il gruppo deve poter operare nei confronti degli elementi spuri da scartare o di quelli preziosi da includere, andando tutti insieme verso la creazione dell’opera. L’impresa da portare a termine come prodotto fruibile muove il gruppo che si muove verso e ciò non può non far pensare alla ricchezza di modelling per imitazione che i singoli membri possono ricavare per sé stessi dall’esperienza di scelta e azione gruppale trasformativa nel mondo.

Pensieri sparsi sulla Pace: il transito

Il periodo storico contemporaneo presenta più ombre che luci e i fatti cui assistiamo quotidianamente a livello geopolitico nel mondo gettano l’animo in uno stato di profonda inquietudine, che se da una parte può esitare in vissuti di angoscia del singolo, dall’altra può indurre a delle elaborazioni sulle strutture psichiche collettive e individuali coinvolte nei conflitti mondiali in atto, tanto da portare chi vi si affacci ad un rinnovato sentimento di appartenenza comunitaria, una sorta di “filia” o disposizione alla relazione umana, ad una rinascita della speranza nelle possibilità di cambiamento inerenti ogni momento di “crisi” come dimensione esistenziale della scelta e ad un distacco psicologico dalla contemporaneità, che non significa indifferenza o qualunquismo, bensì capacità critica di analizzare i fenomeni senza rimanervi invischiati o venirne psicologicamente travolti attraverso il malessere depressivo e il ritiro dai legami sociali, insieme a paura e ruminazioni ossessive che rendono oneroso l’esistere. Ma procediamo con alcuni pensieri per arrivare alla necessità del meditare la pace e, per dirla con la filosofa spagnola Maria Zambrano, “fare anima”.

Sembra che il poeta greco Pindaro del V secolo a.C e, per altro verso, l’umanista della metà del 1400 Erasmo da Rotterdam, abbiano compreso la medesima cosa: “la guerra è dolce solo per chi non la conosce!”. In effetti dobbiamo concordare con entrambi gli illustri pensatori, dal momento che soltanto chi vive direttamente la guerra sulla propria pelle, può raccontarla a chi l’ascolta e questi, nonostante l’interesse, può solo immaginarne i contorni e a malapena immedesimarsi nel vissuto se non come colui che sente dire di un altro mondo, quello della distruzione. L’uditore dei racconti di guerra è ben diverso dall’uditore di chi della guerra si fa incitatore con propaganda. Mentre nel primo caso infatti la distanza temporale e la differenza di spazi segna un gap incolmabile sul piano dell’esperienza ascoltata ma non esperita in prima persona e tuttavia il racconto può produrre nell’ascoltatore una commozione quando il discorso tocca il lutto per le perdite di vite umane, nel secondo invece chi ascolta sarebbe irretito dal potere seduttivo per il quantum di erotizzazione che ogni propaganda bellica comporta, sia per chi la fa che per chi la riceve, in una sorta di transe da possessione che impedirebbe di riflettere grazie al processo dissociativo della coscienza attratta da automatismi inconsci di tipo collettivo. Già in altra sede (v. qui l’articolo del 16 Aprile 2022 dal titolo “La Psiche e la guerra: Eros e Thanatos. Parte 1“) si è potuto vedere come le pulsioni di morte e di amore si intreccino e che, se a prevalere è la pulsione di morte, allora è Thanatos a governare su Eros con conseguenze nefaste per l’uomo e il suo mondo. Il rapporto tra i due opposti si fa teso e venato da un altro elemento dai tratti sadici e impietosi : la brama di potere. Un discorso di guerra è infatti sempre associato al potere, potere sull’altro dominato, potere in funzione padrona!

In ogni caso possiamo ricordare come un filosofo greco dal potente riflettere quale Eraclito, vissuto a cavallo del VI-V secolo a.C., chiami il conflitto “pòlemos” che significa anche “battaglia”, il “contendere”, intendendo che il mondo della vita come mondo intorno a noi è animato da una dialettica di opposti che si alternano e tengono l’universo in transizione. In tal senso la guerra appartiene alla natura cosmica dell’universo ma avrebbe in sé un plus di energia volto alla distruttività. Pare che Freud ed Einstein, intraprendendo un dialogo, si siano reciprocamente fatti domande a tal proposito. Einstein avrebbe chiesto a Freud : ” Ci sarà un momento in cui l’uomo capirà che la guerra è male? E Freud rispose : “Mi vedo costretto ad ammettere che oltre ad Eros nell’uomo abita Thanatos”. Come amava parlare Jung, si tratta di apprezzare la transizione delle civiltà. Anche oggi siamo di fronte ad una transizione tra pandemia e guerra. Il transito è un’esperienza particolare e ha a che fare con la coscienza. La coscienza è fatta di flussi, di “erlebnis” ovvero in tedesco di “vissuti”, di “viventia” in lingua spagnola, secondo cui l’accento non è posto su ciò che è stato ma su ciò che si sta vivendo nel presente, attualmente.Il transito è proprio ciò che si vive in questo momento. E quando il momento che si vive è complesso, proprio come il nostro oggi, vi è il problema dell’orientamento. Dove andiamo? Dove si va? Dove andremo a finire?

Quando il sole sorge, l’uomo ha la sua ombra lunga dietro di sé, quando il sole è allo Zenith allora l’ombra coincide con il suo corpo, ma quando è al tramonto egli la vede davanti a sé. Jung dice che l’uomo ha necessità di incontrare la propria Ombra inconscia, per conoscerla e confrontarvisi e così integrarla alla coscienza per giungere allo sviluppo della personalità piena, ovvero del suo Sè. Jung dice anche che se non dialoghiamo con la nostra Ombra, essa ci colpirà improvvisamente e sarà poi l’accesso sintomatico. L’Occidente contiene nel proprio nome il senso dell’ “occasum solis”, ovvero del tramonto del sole, cosi come l’Oriente quello dell’alba, da “orior” latino ovvero “sorgo, nasco”, quindi l’Occidente è la terra del tramonto, ovvero dove l’uomo occidentale incontra davanti a sé la propria Ombra, che in questo caso è anche collettiva, cioè a dire di matrice inconscia collettiva. Prima eravamo alle prese con la pandemia e questa aveva come oggetto proprio il “Bios” cioè la vita come dato biologico, adesso invece la guerra ha spostato l’inquietudine sulla psiche. Una delle importanti distinzioni, su cui si tornerà avanti in altro scritto, è la distinzione tra potere e potenza. Mentre nel potere si osserva la dinamica dell’ “Io posso”, nella potenza è “la Vita che può sola”. Jung dice che se il soggetto non si accorge di questa dimensione e la confonde come se potesse avere il potere sulla vita e, di conseguenza, sugli altri, allora si assiste all’inflazione inconscia sul soggetto che quindi ne diviene oggetto.

Il concetto di transizione merita approfondimento. Tra gli opposti noi costantemente viviamo a livello psichico poiché la dinamica della tensione tra opposti accompagna sempre la nostra esistenza: ad esempio non si può asserire di essere coerenti comunque e quantunque, in quanto il caso e la necessità influenzano la vita mettendo l’individuo di fronte a scelte che non possono seguire un paradigma unico; il mutamento inerente la vita esclude che un’unica e immutabile visione possa essere quella giusta. Anche a livello psichico quel quid che ci attrae e che ce lo fa sentire familiare può coesistere ed essere contemporaneo ad un sentimento di repulsione nei suoi confronti o di affinità verso il suo contrario, e questo è ciò che si può provare perché è insito nella natura stessa della psiche l’essere animata secondo opposizioni. Il punto importante sembra la presenza di questa tensione che, aumentando di intensità tra i due poli opposti, può di fatto esitare in conflitto. Ma se non si mantiene tale tensione e si cerca di sopprimere una delle due componenti a favore dell’altra, allora si assiste al processo di rimozione o negazione che poi ritornerà come rimosso in forma di sintomo. E ciò è possibile avvenga sia a livello individuale che di psiche collettiva.

Lo psichiatra studioso Silvano Arieti ha introdotto il concetto di “concretismo psichico” per cercare di descrivere il pensiero schizofrenico, secondo cui un’idea di natura simbolica si fa concreta e può assumere connotati anche persecutori per il soggetto che ne opera tale trasformazione reificata. Ad esempio l’immagine simbolica di devozione religiosa potrebbe divenire invasiva di tutti gli spazi di vita del soggetto tanto da percepire devozione in tutti gli atti di chi si incontra o fuggirne perché ci si sente da questi oppressi. In ambito cosiddetto “normale”, anche il denaro da simbolo di scambio può venire reificato e ridotto a cosa, perdendo così la sua potenza simbolica, ovvero di simbolo che tiene insieme due dimensioni in virtù di un’assenza da esso rievocata e chiamata alla presenza. Nel simbolo cioè si avvera la presenza-assenza. Ma quando Socrate faceva la fatidica domanda : “Ti estì?” cioè “Cos’è veramente una cosa?” proprio lì si evinceva la dimensione enigmatica di cui fa parte il transitare oscillante.

Martin Heidegger, filosofo tedesco il cui pensiero attraversa il 1900 fino agli anni ’70, in una sua celebre lezione presso l’università di Friburgo, affronta il tema del transitare. Egli propone l’esempio del mondo dell’università. Osservando la cattedra che gli sta di fronte si chiede e chiede agli allievi cosa sia quella cattedra; la cattedra è di legno, e ciò ci immette nel mondo del falegname, dell’artigianato, di come è stata fabbricata; osservandone le venature lignee si va al mondo dei boschi, degli alberi. Quindi dal mondo accademico che la cattedra rappresenta si passa a quello delle foglie arboree e via dicendo. Cioè questa cosa “mondeggia“, aiuta i transiti dei vari mondi. Si dice “albeggia”, “fraseggia”, che riguardano le dimensioni di transito, i flussi di coscienza. In questo senso si comprende il concetto di “antinomia” di Jung per cui lo psichico è antinomico, ovvero obbedisce contemporaneamente a due leggi in opposizione. Se l’antinomia è sostenuta dall’Io, allora si parla di funzione trascendente, ma se scade in conflitto il nostro Io si identifica con uno o con l’altro dei poli in opposizione e la transizione si blocca poiché il polo che è stato eliso si ripresenta sbarrando la strada alla transizione.

Oggi, potremmo dunque dire, siamo in un momento di rischio della transizione. Stanno cambiando gli equilibri del mondo e questo è il punto che esige grande attenzione, poiché i transiti a volte possono non essere evolutivi.

La Psiche e la Guerra (parte 3): la visione degli archetipi di Jung .

Nel testo del 1911 dal titolo “Trasformazioni e simboli della libido”, Carl Gustav Jung formulò una distinzione tra due opposte modalità di pensiero, rispettivamente rappresentate dalla scienza e dalla mitologia: il pensare indirizzato, logico verbale, e il “fantasticare” associativo e immaginifico. Secondo Jung, il pensiero logico è un’acquisizione moderna estranea allo spirito degli antichi, mentre il pensiero fantastico è relativo ai motivi mitologici che affiorano nei sogni e nelle fantasie degli uomini contemporanei, pur essendo appartenente ad un modo d’essere psichico degli antichi e delle popolazioni tradizionali (cfr. il concetto di “partecypation mystique” di Levy Bruhl qui in “parte 2”). Ecco dunque che Jung propose l’equazione antropologica tra preistorico primitivo e infantile, nella convinzione che l’esplorazione del pensiero fantastico degli individui potesse far luce nell’universo mentale dei bambini, delle etnie tradizionali e delle popolazioni arcaiche e preistoriche. Jung pose quindi in evidenza l’esistenza, in seno all’inconscio, di uno strato filogenetico presente in ciascun individuo, costituito da immagini mitologiche. Analizzò una serie numerosa di miti nell’antichità, servendosi del metodo comparativo, e in ambito antropologico, rintracciandovi delle costanti di rappresentazione tra i due ambiti e all’interno di uno stesso complesso culturale e storico, inaugurando il metodo ermeneutico detto “amplificazione”. Egli dunque sostenne l’esistenza di miti tipici che si manifestano nella psiche come immagini primordiali o archetipi. In un testo del 1940-41, edito poi da Boringhieri nel 1972, dal titolo “Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia”, insieme allo studioso di storia delle religioni Karol Kerenyi, Jung affronta il tema archetipico: in questo testo, con l’aiuto di numerosi esempi tratti dalla mitologia greca, i due studiosi individuano l’azione di “idee gemmanti” che emergerebbero nei comportamenti e nei moti d’anima che sappiamo essere sullo sfondo come versante inconscio collettivo, prendendo vita come immagini guida che dominano la comunità stessa. Una delle immagini guida che Kerenyi ad esempio espone è relativa all’idea del ragazzo orfano o nella variante dell’abbandonato, con un alone di divino che lo accompagna presso le genti che lo accolgono. Il mitologema in tal caso detto del “fanciullo divino” ricalca quello di Zeus, secondo tradizione nato a Creta e subito esposto e abbandonato dai genitori per il pericolo di essere fagocitato dal padre Kronos. Lo schema dell’eroe bambino abbandonato o orfano si ripete a seconda delle varie culture mitologiche anche contemporanee e tradizionali, schema ridondante evidenziabile attraverso il metodo di comparazione storico-antropologica. Zeus ad esempio è esposto appena nato e le nutrici divine o animalesche, così come nel culto di Dioniso bambino, esprimono due cose: la solitudine del fanciullo divino e, d’altra parte, la sua familiarità con il mondo primordiale, quindi con la creazione di una doppia situazione, quella del fanciullo orfano e quella del figlio amato degli dei. Un’altra variazione del tema è quella in cui la madre condivide l’abbandono e la solitudine ed erra raminga, senza patria e perseguitata, come Leto che viene difesa dal proprio neonato Apollo contro la violenza del gigante Tityos. Oppure un altro esempio di mitologema centrale, su cui Jung riflette, riguarda la figura dell’eroe, come ad esempio Ercole con le sue dodici fatiche, in cui lo studioso analista vide una rappresentazione della vita dell’individuo che aspira a rendersi indipendente e a liberarsi dalla madre. In questo quadro, il motivo dell’incesto, che ritroviamo ad esempio nella trilogia tragica del cosiddetto ciclo tebano su Edipo, scritto dal drammaturgo greco Sofocle del V secolo a.C., appare a Jung come un tentativo di ritorno alla madre onde pervenire ad una rinascita. Queste dimensioni immaginifiche che tornano nelle diverse culture e formano il sostrato simbolico cui attinge la vita della comunità umana attraverso i secoli, costituiscono secondo Jung l’inconscio collettivo. Per continuare con un altro esempio di mitologema che richiama il tema bellico, andiamo al politeismo dei Germani (v. Angelo Brelich: Introduzione alla Storia delle Religioni, 1966, Ed. Dell’Ateneo, Roma): con esso ci riferiamo a tre grossi gruppi distanti l’uno dall’altro nel tempo e nello spazio. Il primo riguarda i Germani a contatto con Roma e Tacito, lo storico romano, sarà il nostro informatore testimone dell’epoca; il secondo gruppo è relativo ai popoli germanici della Scandinavia e deriva da un’epoca molto più recente, in cui quei popoli si erano cristianizzati; il terzo gruppo è inerente alle migrazioni dei popoli e successivamente ad esse, con i Goti, i Franchi, i Longobardi, i Sassoni e i Germani del Nord. Dobbiamo poi menzionare i testi in prosa dal contenuto mitologico copiati e pubblicati sotto il titolo di Edda, risalenti all’8°/10° secolo, dall’erudito cristiano Snorri Sturlsson, il quale rimaneggiava i poemi mitici, tra cui anche quelli ritrovati in Islanda. Basti qui ricordare la centralità del mito delle due maggiori divinità Thorr e Odino. Thorr è il dio che combatte e vince gli avversari del suo popolo e dei suoi guerrieri, i vikinghi. Tra questi nemici figura anche un essere mostruoso mitico, il serpente cosmico; ma gli avversari più caratteristici di Thorr sono una specie di esseri particolari della mitologia nordica, i giganti che abitano l’Utgard, cioè il “mondo di fuori” rispetto al Mitgard o “mondo di mezzo” sede di dei e uomini, ed essi minacciano continuamente il cosmo divino mediante il ratto dei pomi dell’immortalità di cui si cibano gli dei. Thorr è il campione di questa lotta. Ma egli non è la divinità suprema, che invece è Odino. Wodan ha nel nome stesso la radice Wut ovvero Furore, e per molti indizi il dio appare come quello del furore bellico, dio dei famosi bersekir, guerrieri estatici dei Germani. Il suo aspetto guerriero però ha caratteri magici e oscuri, differenti da quelli di Thorr il cui attributo è il martello, e i suoi attributi sono invece il corvo e il lupo, che arrivano ad uno stretto legame con il mondo dei morti. Nei miti egli appare come viandante, cieco ad un occhio, che viene sempre da lontano; egli è lo straniero, rappresentante del mondo di fuori, che assicura con il “met”, bevanda magica che dà ispirazione poetica, l’immortalità agli dei. Egli, in uno dei suoi miti, s’impicca per nove giorni e notti ad un albero, soffre fame e freddo, ma mediante questa sua prova di morte iniziatica, egli viene a scoprire le “rune”, cioè l’alfabeto germanico. Il Valhalla è la grandissima sala sita in Asgaror, il mondo governato da Odino. Quando un guerriero muore in battaglia, una metà, scelta personalmente da Odino, si dirige accompagnata dalle Valchirie nel Valhalla. Qui i morti si riuniscono insieme a Odino. Interessante l’etimologia del Valhalla, secondo cui Valr indica il “massacro“, il campo di battaglia, la carneficina, il bagno di sangue, mentre il secondo termine Holl significa “luogo“, “spazio”. Il Valhalla, in cui ogni giorno Odino sceglie i caduti in battaglia, ha un tetto che poggia su lance, è costituito da scudi ed ha per panche delle corazze.

Ciò che bisogna dire è che Jung si differenzia da Freud proprio per il suo non ridurre a sistema causalistico retrospettivo le immagini inconsce che determinerebbero dal passato il presente vissuto dall’individuo. Jung al contrario considera, oltre alle immagini inconsce personali, delle immagini inconsce collettive o archetipi, i quali non sarebbero da collocare in un passato filogenetico ereditario e quindi ipostatiche e deterministiche, ma dinamiche e in un continuo divenire. Come egli stesso ebbe a dire : “Tentare di comprendere un’opera come il Faust di Goethe in chiave analitico-riduttiva equivale a voler spiegare una cattedrale gotica dal punto di vista della mineralogia” (v. C.G.Jung (1914) : “Sulla comprensione psicologica dei processi patologici” ). In realtà dal punto di vista di Jung il significato effettivo di un sogno, di una fantasia è “compreso solo se viene inteso come qualcosa che è in continuo divenire e da vivere” (ibid.). Dunque la vita è un divenire e non può essere compresa in un’ottica meramente retrospettiva. Anzi per Jung il materiale onirico-fantastico possiede una prospettiva conoscitiva futura. Fu cosi che lo stesso Jung, che adottò un metodo di ricerca sulle proprie produzioni oniriche e fantastiche, ebbe 12 fantasie nel 1913 che egli interpretò come premonitrici: visioni di inondazioni e migliaia di morti, mare di sangue sui paesi del Nord Europa, immagini di piedi giganti che camminano su una città devastandola e massacri di efferata crudeltà. Egli fu preso da sgomento, credendo che di lì a poco sarebbe incorso in una psicosi annunciata da siffatto materiale inconscio che nella catastrofe indicava la propria esondazione sulla coscienza in veste di delirio psicopatologico. Quando però apprese dai giornali che la Prima Guerra Mondiale era scoppiata, allora si rassicurò sulle proprie condizioni di salute psichica, individuando invece in modo predittivo ciò che sarebbe successo nel Vecchio Continente. In altre parole era la premonizione di un evento collettivo attraverso le fantasie oniriche, una corrispondenza tra fantasie individuali ed eventi collettivi. Lo stesso studioso in più punti della sua opera si sofferma sulla dimensione di ri-vitalizzazione degli archetipi dell’inconscio collettivo a proposito della Seconda Guerra Mondiale, sia per il fenomeno del fascismo che per quello del nazismo. Nel fascismo ad esempio l’archetipo della romanità marziale, quella ispirata a Mars, dio del furore bellico, sembra informare larga parte della cultura sia di rappresentazione architettonica – ancora sono visibili su alcuni palazzi a Roma i fasci littori ovvero armi dell’antica Roma consistenti in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di cuoio e recanti una scure, attributo di imperio e potere – sia più in generale di rappresentazione dell’ auctoritas in tutte le sue forme comunicative: la figura del “dux” come colui che guida il suo popolo alla vittoria espansionistica che conquista e governa altre genti del suo impero e, secondariamente, civilizza esportando la propria visione del mondo presso popoli stranieri, una figura indiscutibile e unica cui i cittadini delegano capacità di scelta e di governo attraverso il meccanismo di identificazione carismatica col capo. La storica campagna d’Africa cui Mussolini si rivolge per rifondare l’impero italico si ispira all’immagine del condottiero Cesare e, con i suoi intenti di progresso civilizzatore, all’imperatore Ottaviano. Un’altra particolarità che fa sentire l’azione di un’immagine-guida archetipica si può rintracciare anche nel vissuto temporale che attraversa tutto il ventennio fascista e che ha una potenza immaginifica fondatrice o, potremmo dire, ri-fondatrice del tempo: il tempo si sospende come dimensione cronologica continua e riparte a battere dal primo anno di fondazione della rivoluzione fascista. In molti punti di Roma, case o monumenti o opere ingegneristiche, si possono scorgere scolpiti i numeri romani che segnano l’anno di edificazione, e non si è più ad esempio nel 19… ma nel X° anno dell’era fascista. Questa sospensione temporale che passa attraverso una ri-nominazione culturalmente propria alla visione del mondo che la sostiene, non può non farci pensare alla caratteristica dell’inconscio senza tempo, all’ aiòn (trad. dal greco antico come l’ “eterno“) o susseguirsi infinito dei cicli cosmici che si rinnovano, in tal senso vedendo nella emersione vivente dell’archetipo della romanitas una manifestazione del tempo ciclico. Cioè a dire che quel che si animò nel caso del fenomeno fascista fu la polarizzazione di immagini numinose che mossero le folle e le dominarono spingendole verso una meta, che non inaspettatamente era belluina. D’altronde già Freud in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), in riferimento a ciò che aveva scritto lo psicologo Gustave Le Bon (v. il suo libro “Psicologia delle folle”, 1895), mostrava il meccanismo proiettivo dell’individuo che si sente potente sbarazzandosi nella massa anonima del senso di responsabilità che pone i limiti all’espressione degli istinti. La quale massa gli permetterebbe quindi di commettere, attraverso anche l’identificazione con il leader, le azioni comunemente non accettabili legate all’irrazionale, che così troverebbero il loro recetto in accordo col collettivo. La perdita di controllo di una massa in movimento è in effetti molto temibile per le conseguenze in termini di morti e feriti che procura, come in uno stadio per battaglie tra tifoserie avverse o in un mega assembramento per le festività religiose nel continente indiano, dove basta un sussulto o un allarme per mettere in moto l’ oceano di teste che si accalca per panico schiacciando chi cade a terra. Ma l’influsso di immagini archetipiche cui si riferisce Jung hanno una potenza numinosa che proviene dalla vita e rifluisce nella vita, hanno carattere sacro ovvero misterico, nel senso che si dischiudono ad una manifestazione visibile ma al contempo rimandano ad una dimensione che è ancora sconosciuta e che perciò inquieta per la sua forza percepibile ma non definibile univocamente. E’ il rimando del simbolo all’inesauribile stratificazione di senso che ritroviamo poi nel mito-rito. E’ indubbio come molte delle manifestazioni di forza del regime nazista avessero un’eco nell’atmosfera nordica del mito dei Nibelunghi, il popolo di nani o “popolo delle nebbie” come si traduce Niflungar in norreno, descritto nell’Edda (v. sopra), di cui bisogna ricordare l’eroe Sigfrido che ucciderà il drago appropriandosi del suo tesoro e amerà Brunilde che poi tradirà con Crimilde, ma da Brunilde sarà ucciso per vendetta cui seguirà il suicidio della stessa in un epilogo cupamente tragico. Le bandiere rosse con la svastica nera che sventolano nella notte piena di bagliori dei fumogeni mentre ali di folla inneggiano all’esercito in rassegna che con passo dell’oca sfila con movimento sincrono, non può non farci tuffare nell’atmosfera nibelungica in cui la potenza è potenza della morte glorificante. Qui il Valhalla si intravede e vieppiù si comprende come sia presente il flusso d’immagini che esaltano il travalicamento di ogni confine che poi conduce in tal caso al trionfo della morte. La coscienza individuale viene invasa in tal caso da un’inflazione di archetipi dell’inconscio collettivo e tendenzialmente ne è sopraffatta e posseduta. Una possibile seppur parziale risposta alla domanda su come sia accaduto che un intero popolo, quello tedesco, abbia potuto accettare l’olocausto di 6 milioni di ebrei deportati e uccisi nei campi di concentramento, può trovare un orizzonte di comprensione psichica alla luce dei fatti storici: dov’era la coscienza collettiva mentre gli ebrei venivano portati ai treni in partenza per i campi di concentramento? Nessuno si è mai accorto di nulla oppure è avvenuto un processo di negazione della realtà percettiva vivente? D’altronde molti degli imputati nazisti del processo di Norimberga, accusati dei peggiori crimini di guerra e di sterminio, rispondevano candidamente di aver soltanto eseguito gli ordini, come se l’io giudicante, agente e capace di scelta, si fosse dissolto sotto l’onda massiccia di spinta di un impersonale collettivo in quel caso procedente dal sistema burocratico nazista. Non possiamo poi non ricordare un’altra delle idee portanti del nazismo ovvero quello della purezza della razza attraverso il ricorso ad un’altra idealizzazione mascherata da scienza, l’eugenetica. E’ chiaro che l’ideale di uomo perfetto forte e guerriero affonda le sue radici nelle iniziazioni spartane, dove la selezione per far divenire uomini pronti alla guerra i giovani si basava su prove che mettevano a rischio la vita di chi morendo dimostrava di non esserne all’altezza. Ma in quel caso si trattava di una società guerriera che aveva nel sistema cultuale religioso il suo fondamento esplicativo e l’idea di prestanza era sì legata alle necessità belliche ma poggiava e proveniva dal pantheon di riferimento legato ad Artemide, Apollo, Zeus. Nel sistema nazista, pur essendovi echi classicisti, tuttavia si stagliava l’immagine di alba dell’umanità, una potenza sorgiva della natura che si inverava, secondo tale ossessivo disegno, nella nascita dell’uomo perfetto nel senso della potenza primigenia contenuta nella natura, una natura indomita che incarnava lo spirito nordico tedesco. Il punto però anche connesso alla sorgente simbolica era la distruttività sadica che alla fine doveva trovare la propria realizzazione nell’azzeramento, nella polverizzazione dell’esistente come vita, cui deve subentrare la desertificazione quale regno dei morti glorificati, come abbiamo visto sopra realizzarsi nel mito del Valhalla. Dobbiamo in effetti notare un dettaglio di non poca importanza presente nella rappresentazione della svastica adottata dal regime nazista. Qui il simbolo vedico di trasformazione cosmica legata alla rotazione solare non gira da sinistra verso destra, come indica nel simbolo il movimento sinistrorso legato alla creazione, ma da destra verso sinistra, che indicherebbe distruzione e dissoluzione. Ed è dunque interessante la scelta simbolica che ne fece il nazismo, quasi ad indicare l’azione di un meccanismo inconscio distruttivo. In realtà anche nel cosiddetto passo dell’oca o più in generale nei modi marziali di una cultura dedita all’arte della guerra, si intravedono i meccanismi di un automatismo psicologico (cfr. Pierre Janet in “L’automatismo psicologico” 1895, tradotto e pubblicato 2013) che prende forma a livello di psiche collettiva. Si tratta di un vero e proprio complesso psichico che consideriamo agente come inconscio e fuori dalla consapevolezza, che si instaura e guida gli atti in maniera ripetitiva e seriale. Il suo essere inconscio lo colloca tra gli stati dissociativi della psiche e perciò rientra nella dimensione psicopatologica. Per questo Jung temeva per sé l’insorgere di una psicosi nel momento in cui si imponevano alla sua coscienza vigile contenuti immaginifici che sentiva tanto più potenti quanto estranei, tanto più automatici quanto più inconsapevoli e derivanti da immagini luminose che inflazionavano il collettivo. Si potrebbe dunque avanzare l’ipotesi, ormai consolidata anche come tesi preliminare di ricerca, che la guerra e il suo infuriare sia l’epifenomeno di un oscillazione vorticosa dello psichico, la quale fa impazzire perché sottopone proprio lo psichico a continue, ripetute e fisse immagini, legate alla potenza distruttrice? Possiamo allora considerare in uno stato di psicosi un collettivo che sia dedito al culto delle armi e al conseguente uso distruttivo delle stesse sulla vita umana e sul mondo naturale in cui abita? La risposta di chi scrive è senza dubbio affermativa!

La Psiche e la Guerra: la prospettiva freudiana (parte 2)

Nel 1915 Sigmund Freud pubblica un testo essenziale a cui riferirsi quando si parla di guerra : “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”. Qui lo studioso chiarisce che la storia umana è il lungo processo di civilizzazione di Thanatos, cosi come di Eros, una civilizzazione della pulsione libidica e dell’istinto di morte. Secondo tale visione, il corteggiamento è al posto dello stupro cosi come un confronto tra argomentazioni opposte sostituisce un’aggressione fino all’omicidio. Quindi in quest’ottica la guerra diventa una regressione al mondo arcaico primitivo, dove vale la legge dell’ “homo homini lupus” (trad. :”uomo lupo per l’uomo”), una “lex talionis” (trad. : “legge del taglione”), cioè un “occhio per occhio dente per dente”, se vogliamo citare un detto popolare, in cui la componente di risposta non mediata dal pensiero si incanala preferenzialmente nel cunicolo dell’aggressività e della supremazia violenta sull’altro, in un rapporto dominante-dominato. Il tabù civilizzatore del “non uccidere” decade dunque in guerra per le ondate regressive pulsionali cui è sottoposto lo psichico che, come dice Pierre Janet, abbassa il proprio livello, un “abbaissement du niveau mental”, ovvero una reattività dello psichico molto più alta del solito perché più bassa è la soglia di stimolazione cui esso diviene sensibile. La temperie emotiva della guerra, con i morti che via via aumentano e l’inosservanza delle regole di mutuo rispetto della vita, prima assunte come convenzioni date, ora esalate e dissolte sotto i colpi del prevalere sull’altro da vincere e sottomettere comunque al proprio imperio, costituiscono il nuovo milieu o mondo circostante, che contribuisce all’abbassamento di soglia della reattività psichica e quindi all’incrudelimento proprio ad una natura ferina. E’ quel che accade quando l’uomo torna ad uno stato di “homo naturae” (trad.: “uomo di natura”, ovvero quella condizione in cui, secondo Lévy-Bruhl, l’individuo di una tribù tradizionale e indigena, per esempio africana, proietta sulla natura ciò che non riconosce come fenomeno psichico proprio. In questa condizione psichica ad esempio, cacciare troppi animali può voler dire per costui attendersi una ritorsione dalla foresta che si vendicherà attraverso insidie volte ad aggredirlo secondo una intenzionalità, ora proiettata in un albero che lo travolge ora in un fiume che lo inghiotte. Lévy-Bruhl parlerà in questo senso di “partecypation mystique“, ovvero uno stato in cui non c’è alcuna differenza tra percepiente e percepito, i quali vivono in una simbiosi sensoriale tale che il soggetto è sotto l’influsso di una “identità arcaica” che diviene poi inconscia nel processo di civilizzazione presieduto, ma fino ad un certo punto controllato, dal pensiero differenziante. Il concetto di partecypation mystique sarà poi ripreso da Carl Gustave Jung per orientarsi nella ricerca e nell’approfondimento degli archetipi dell’inconscio collettivo (vedi parte 3). Ecco dunque farsi più comprensibili i crimini di guerra come portato precipitato delle reazioni difensive che assumono l’aspetto di ritorsione e vendetta in un processo di sempre maggior attivazione dell’asse libidico polarizzato nelle due facce, rispettivamente, attive e passive ovvero sadico-masochistiche di un’unica medaglia: quella dell’impianto pulsionale perverso. In effetti possiamo parlare di un impasto perverso quando la libido non trova un canale diretto di soddisfazione della propria scarica ma cerca vie indirette di raggiungimento dello scopo al posto di quello originario. Valga per tutti l’esempio di un gruppo di preadolescenti maschi che si costituiscono come branco delinquenziale, così come evidenziato da Donald Meltzer. Qui la pulsione libidica comune a tutti loro sarebbe dimensionata secondo impulsi omoerotici latenti, cioè non consapevoli, relativi ad uno stato indifferenziato dell’identità sessuale psichica e di indifferenziazione tra membri di uno stesso gruppo, il cui sviluppo è bloccato dalla negazione di identificazioni omofiliche, negazione derivante dalla difficoltà di un’elaborazione del complesso edipico che porta alla scelta d’oggetto d’amore. La negazione come meccanismo inconscio difensivo perverte, cioè devia, la pulsione sessuale, che secondo Freud contiene già in sé una certa aggressività con sopraffazione dell’altro, verso l’attacco e la distruzione dell’oggetto stesso interno d’amore, i soggetti cedendo quindi all’impulsività distruttiva che rende morto, cioè mortifica, ciò che si manifesta come amore e vita. Il gruppo quindi cementa il proprio legame libidico attraverso una pulsione distruttiva che in realtà ha alla sua origine una mancanza elaborativa rappresentazionale psichica della pulsione erotica. Per questo possiamo dire che la psicosi è imparentata con la perversione criminale, in quanto in entrambe le configurazioni si assiste all’azione indisturbata del meccanismo difensivo della negazione, che è ancor più regressiva e potente rispetto alla rimozione mentre è vicina all’altra sua compagna, la scissione. La scissione dell’oggetto psichico potrebbe essere accompagnata dal processo di frammentazione dell’oggetto stesso fino alla rappresentazione di una sua polverizzazione attraverso lo sminuzzamento delle sue parti. Un’ulteriore interpretazione della guerra a livello intrapsichico la dobbiamo alla riflessione acuta dello psicoanalista Franco Fornari, che nella sua relazione al Congresso di psicoanalisi a Milano nel 1964 poi divenuta libro dal titolo “Psicoanalisi della guerra”, avanza l’ipotesi ampiamente condivisibile di un’eziologia patologica da lutto irrisolto alla radice dello scatenamento della guerra. Ciò riguarderebbe sia il versante individuale di un leader che conduce alla guerra il suo popolo, di solito a capo di regime totalitario, sia un’intera collettività riunita in nazione con forti basi identitarie relative all’appartenenza dei suoi membri sotto un’unica bandiera. In entrambi i casi vi sarebbe al fondo un irrisolto lutto da separazione rispetto ad un’unità perduta, sia che la separazione riguardi una vicenda personale nella storia di vita del tiranno, sia relativa ad un’ideale di patria sentito come ingiustamente violato ed estorto. La mancata elaborazione del lutto porterebbe poi ad una scarica dell’emozione correlata di rabbia e aggressività per distruggere l’oggetto d’amore internalizzato e avvertito come cattivo. Concludiamo questa seconda parte con un pensiero che Freud ebbe a scrivere tra il 1930-1938, ovvero gli anni subito precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale, reperibili in Opere vol. 11 pg. 303: “Poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia”.