Pietro Salemme

Psicologo Psicoterapeuta a Roma

L’incesto e il complesso di Edipo nella visione di Jung: alcune differenze con Freud.

In un precedente articolo qui pubblicato (cfr. “Pensieri sparsi sulla Pace: il Transito”), si è affrontato il concetto di transizione, sia per ciò che riguarda il soggetto che la collettività, intesi entrambi come psichici, laddove nel primo caso il blocco del transito da una configurazione psichica ad un’altra porta al sintomo psicopatologico e alla sofferenza e quindi alla possibilità eventuale di mutamento evolutivo per il soggetto stesso , nel secondo il cambio di equilibri geopolitici e socio-culturali produce disequilibri e un’instabilità che possono esitare in guerre o portare a cambiamenti epocali migliorativi. Insomma la transizione e il transito o i transiti possono essere evolutivi ma anche distruttivi.

I Greci antichi parlavano di tragico, che non è la colpa ma è il dover attraversare le antinomie (v. qui articolo “Pensieri sparsi sulla pace…”), ovvero i contrasti polarizzati dello psichico e dell’esistenza, non eliminando uno dei due estremi, che poi ritorna come sintomo cui sottende il rimosso, ma dovendo attraversare queste stesse antinomie in transito. Si tratterebbe di un ritmo ed è proprio questo quello che Nietzsche chiama la più grande esperienza psichica che è il tragico. Il bianco e il nero, come antinomie, hanno moltissime sfumature cui bisogna porre attenzione. Eliminare una delle due parti in contrasto significa rimuovere e cadere nell’automatismo, che si ripropone fuori dalla coscienza. Restare nella consapevolezza invece e tenere al contempo le due opposte polarità presenti alla propria attenzione, significa uscire dall’automatismo e cominciare a riflettere, che non è semplice pensare ma è riflettere su di sé, ovvero il ripiegarsi del soggetto che pensa su di sé in modo riflesso. Quindi l’opportunità è quella di essere custodi del momento e della transizione attraverso l’attenzione riflessiva. Noi abbiamo rimosso le testate nucleari, ma l’automatismo porta sempre a rientrare nell’automatismo. Un equilibrio della paura fa sfuggire qualcosa, l’equilibrio migliore è la consapevolezza dell’automatismo.

Ma vediamo da vicino la dimensione umana del tragico, focalizzandone un tema universale : l’incesto. Nell’Edipo Re di Sofocle si inaugura il tema dell’incesto, della colpa, dell’inganno, del tradimento. Per Jung l’incesto è regressione alla dimensione infantile nel materno. In verità l’Edipo Re sembra essere un frammento di psicoanalisi. La concezione del problema dell’incesto in Jung è su un piano radicalmente differente da Freud. In Jung l’incesto fa parte delle immagini inconsce archetipiche e riguarda il transfert come attivazione regressiva di queste immagini, mentre per Freud padre e madre verso cui si rivolgono le istanze regressive sono reali. Il complesso edipico è universale nel bambino, solo nell’adulto diventa conflitto. Tanto più la sessualità si realizza tanto più aumenta l’affrancarsi, se non c’è libertà c’è conflitto da dipendenza! Per Freud il conflitto tra libertà e dipendenza dalle figure parentali è già nell’infanzia, per Jung per dare origine alla nevrosi deve attivarsi il complesso: cioè se per Freud c’è il fatalismo di un’attualizzazione nel passato, per Jung il complesso dell’incesto non è una realtà ma una regressione fantastica regressiva. Per essere più chiari, secondo Jung le fantasie incestuose esistono, non sono però letterali come vuole Freud, cioè rivolte alla madre e al padre che il figlio ha. Sia Freud che Jung però condividono l’idea che siano fantasie incestuose e che siano universali.

Per Jung il tabù dell’incesto è visto da un punto di vista antropologico; cioè c’è nell’uomo un’esigenza di esogamia, l’incesto al contrario è la tendenza endogama che favorisce la solidificazione del gruppo familiare secondo un impulso di conservatorismo. Per Jung è stato l’istinto evolutivo dell’uomo ad imporre l’esogamia, favorendo lo scambio genetico. La paura dell’incesto è per Jung la paura di essere divorato dalla madre, una Madre primigenia. L’individuazione diviene in tal senso una libera volontà autoaffermatrice: la madre è l’inconscio e il ritorno alla madre è la regressione come esigenza di immergersi della libido nell’inconscio. Giona vede i misteri nel ventre della balena. Per Jung l’incesto si collega così al mito dell’eroe, quale individuazione di individualità distinta dall’inconscio che è la Madre Primigenia. Nella vita adulta, quando c’è un ostacolo o si ha una vita unilaterale, cioè senza contatto con l’inconscio, ma identificati con il solo fatto conscio, si può assistere secondo Jung ad una re-immersione nell’inconscio, la libido rifluisce e riattiva vecchi problemi. Il viaggio nell’inconscio è pericoloso, può portare ad una paralisi, il soggetto non può mettere radici nel mondo e invece si appoggia al materno. L’esito positivo invece è una brama di rinascita con aspetto creativo dell’inconscio, il soggetto trova qualcosa di utile per sé e il dialogo tra l’Io e l’inconscio può procedere senza fine. Quindi mentre l’endogamia è un restare bambini, essere contenuti dall’inconscio, l’esogamia è la volontà di individuazione. Il superamento dell’Edipo è la possibilità di attingere la creatività senza negarne la pericolosità. Quindi in quest’ottica l’incesto, a livello di fantasie regressive, si pone come un nucleo del processo di individuazione.

Se per Freud la teoria psicoanalitica corrisponde alla verità, per Jung la sua teoria è una delle visioni possibili; se per Freud l’uomo è il risultato degli impulsi inconsci, per Jung l’uomo è il luogo non definitivo di indeterminazione non adattiva ma che ospita la contraddizione abitandola senza cedere a nessuna delle parti. Abitiamo un ossimoro: nella luce l’ombra.

Pensieri sparsi sulla Pace: il transito

Il periodo storico contemporaneo presenta più ombre che luci e i fatti cui assistiamo quotidianamente a livello geopolitico nel mondo gettano l’animo in uno stato di profonda inquietudine, che se da una parte può esitare in vissuti di angoscia del singolo, dall’altra può indurre a delle elaborazioni sulle strutture psichiche collettive e individuali coinvolte nei conflitti mondiali in atto, tanto da portare chi vi si affacci ad un rinnovato sentimento di appartenenza comunitaria, una sorta di “filia” o disposizione alla relazione umana, ad una rinascita della speranza nelle possibilità di cambiamento inerenti ogni momento di “crisi” come dimensione esistenziale della scelta e ad un distacco psicologico dalla contemporaneità, che non significa indifferenza o qualunquismo, bensì capacità critica di analizzare i fenomeni senza rimanervi invischiati o venirne psicologicamente travolti attraverso il malessere depressivo e il ritiro dai legami sociali, insieme a paura e ruminazioni ossessive che rendono oneroso l’esistere. Ma procediamo con alcuni pensieri per arrivare alla necessità del meditare la pace e, per dirla con la filosofa spagnola Maria Zambrano, “fare anima”.

Sembra che il poeta greco Pindaro del V secolo a.C e, per altro verso, l’umanista della metà del 1400 Erasmo da Rotterdam, abbiano compreso la medesima cosa: “la guerra è dolce solo per chi non la conosce!”. In effetti dobbiamo concordare con entrambi gli illustri pensatori, dal momento che soltanto chi vive direttamente la guerra sulla propria pelle, può raccontarla a chi l’ascolta e questi, nonostante l’interesse, può solo immaginarne i contorni e a malapena immedesimarsi nel vissuto se non come colui che sente dire di un altro mondo, quello della distruzione. L’uditore dei racconti di guerra è ben diverso dall’uditore di chi della guerra si fa incitatore con propaganda. Mentre nel primo caso infatti la distanza temporale e la differenza di spazi segna un gap incolmabile sul piano dell’esperienza ascoltata ma non esperita in prima persona e tuttavia il racconto può produrre nell’ascoltatore una commozione quando il discorso tocca il lutto per le perdite di vite umane, nel secondo invece chi ascolta sarebbe irretito dal potere seduttivo per il quantum di erotizzazione che ogni propaganda bellica comporta, sia per chi la fa che per chi la riceve, in una sorta di transe da possessione che impedirebbe di riflettere grazie al processo dissociativo della coscienza attratta da automatismi inconsci di tipo collettivo. Già in altra sede (v. qui l’articolo del 16 Aprile 2022 dal titolo “La Psiche e la guerra: Eros e Thanatos. Parte 1“) si è potuto vedere come le pulsioni di morte e di amore si intreccino e che, se a prevalere è la pulsione di morte, allora è Thanatos a governare su Eros con conseguenze nefaste per l’uomo e il suo mondo. Il rapporto tra i due opposti si fa teso e venato da un altro elemento dai tratti sadici e impietosi : la brama di potere. Un discorso di guerra è infatti sempre associato al potere, potere sull’altro dominato, potere in funzione padrona!

In ogni caso possiamo ricordare come un filosofo greco dal potente riflettere quale Eraclito, vissuto a cavallo del VI-V secolo a.C., chiami il conflitto “pòlemos” che significa anche “battaglia”, il “contendere”, intendendo che il mondo della vita come mondo intorno a noi è animato da una dialettica di opposti che si alternano e tengono l’universo in transizione. In tal senso la guerra appartiene alla natura cosmica dell’universo ma avrebbe in sé un plus di energia volto alla distruttività. Pare che Freud ed Einstein, intraprendendo un dialogo, si siano reciprocamente fatti domande a tal proposito. Einstein avrebbe chiesto a Freud : ” Ci sarà un momento in cui l’uomo capirà che la guerra è male? E Freud rispose : “Mi vedo costretto ad ammettere che oltre ad Eros nell’uomo abita Thanatos”. Come amava parlare Jung, si tratta di apprezzare la transizione delle civiltà. Anche oggi siamo di fronte ad una transizione tra pandemia e guerra. Il transito è un’esperienza particolare e ha a che fare con la coscienza. La coscienza è fatta di flussi, di “erlebnis” ovvero in tedesco di “vissuti”, di “viventia” in lingua spagnola, secondo cui l’accento non è posto su ciò che è stato ma su ciò che si sta vivendo nel presente, attualmente.Il transito è proprio ciò che si vive in questo momento. E quando il momento che si vive è complesso, proprio come il nostro oggi, vi è il problema dell’orientamento. Dove andiamo? Dove si va? Dove andremo a finire?

Quando il sole sorge, l’uomo ha la sua ombra lunga dietro di sé, quando il sole è allo Zenith allora l’ombra coincide con il suo corpo, ma quando è al tramonto egli la vede davanti a sé. Jung dice che l’uomo ha necessità di incontrare la propria Ombra inconscia, per conoscerla e confrontarvisi e così integrarla alla coscienza per giungere allo sviluppo della personalità piena, ovvero del suo Sè. Jung dice anche che se non dialoghiamo con la nostra Ombra, essa ci colpirà improvvisamente e sarà poi l’accesso sintomatico. L’Occidente contiene nel proprio nome il senso dell’ “occasum solis”, ovvero del tramonto del sole, cosi come l’Oriente quello dell’alba, da “orior” latino ovvero “sorgo, nasco”, quindi l’Occidente è la terra del tramonto, ovvero dove l’uomo occidentale incontra davanti a sé la propria Ombra, che in questo caso è anche collettiva, cioè a dire di matrice inconscia collettiva. Prima eravamo alle prese con la pandemia e questa aveva come oggetto proprio il “Bios” cioè la vita come dato biologico, adesso invece la guerra ha spostato l’inquietudine sulla psiche. Una delle importanti distinzioni, su cui si tornerà avanti in altro scritto, è la distinzione tra potere e potenza. Mentre nel potere si osserva la dinamica dell’ “Io posso”, nella potenza è “la Vita che può sola”. Jung dice che se il soggetto non si accorge di questa dimensione e la confonde come se potesse avere il potere sulla vita e, di conseguenza, sugli altri, allora si assiste all’inflazione inconscia sul soggetto che quindi ne diviene oggetto.

Il concetto di transizione merita approfondimento. Tra gli opposti noi costantemente viviamo a livello psichico poiché la dinamica della tensione tra opposti accompagna sempre la nostra esistenza: ad esempio non si può asserire di essere coerenti comunque e quantunque, in quanto il caso e la necessità influenzano la vita mettendo l’individuo di fronte a scelte che non possono seguire un paradigma unico; il mutamento inerente la vita esclude che un’unica e immutabile visione possa essere quella giusta. Anche a livello psichico quel quid che ci attrae e che ce lo fa sentire familiare può coesistere ed essere contemporaneo ad un sentimento di repulsione nei suoi confronti o di affinità verso il suo contrario, e questo è ciò che si può provare perché è insito nella natura stessa della psiche l’essere animata secondo opposizioni. Il punto importante sembra la presenza di questa tensione che, aumentando di intensità tra i due poli opposti, può di fatto esitare in conflitto. Ma se non si mantiene tale tensione e si cerca di sopprimere una delle due componenti a favore dell’altra, allora si assiste al processo di rimozione o negazione che poi ritornerà come rimosso in forma di sintomo. E ciò è possibile avvenga sia a livello individuale che di psiche collettiva.

Lo psichiatra studioso Silvano Arieti ha introdotto il concetto di “concretismo psichico” per cercare di descrivere il pensiero schizofrenico, secondo cui un’idea di natura simbolica si fa concreta e può assumere connotati anche persecutori per il soggetto che ne opera tale trasformazione reificata. Ad esempio l’immagine simbolica di devozione religiosa potrebbe divenire invasiva di tutti gli spazi di vita del soggetto tanto da percepire devozione in tutti gli atti di chi si incontra o fuggirne perché ci si sente da questi oppressi. In ambito cosiddetto “normale”, anche il denaro da simbolo di scambio può venire reificato e ridotto a cosa, perdendo così la sua potenza simbolica, ovvero di simbolo che tiene insieme due dimensioni in virtù di un’assenza da esso rievocata e chiamata alla presenza. Nel simbolo cioè si avvera la presenza-assenza. Ma quando Socrate faceva la fatidica domanda : “Ti estì?” cioè “Cos’è veramente una cosa?” proprio lì si evinceva la dimensione enigmatica di cui fa parte il transitare oscillante.

Martin Heidegger, filosofo tedesco il cui pensiero attraversa il 1900 fino agli anni ’70, in una sua celebre lezione presso l’università di Friburgo, affronta il tema del transitare. Egli propone l’esempio del mondo dell’università. Osservando la cattedra che gli sta di fronte si chiede e chiede agli allievi cosa sia quella cattedra; la cattedra è di legno, e ciò ci immette nel mondo del falegname, dell’artigianato, di come è stata fabbricata; osservandone le venature lignee si va al mondo dei boschi, degli alberi. Quindi dal mondo accademico che la cattedra rappresenta si passa a quello delle foglie arboree e via dicendo. Cioè questa cosa “mondeggia“, aiuta i transiti dei vari mondi. Si dice “albeggia”, “fraseggia”, che riguardano le dimensioni di transito, i flussi di coscienza. In questo senso si comprende il concetto di “antinomia” di Jung per cui lo psichico è antinomico, ovvero obbedisce contemporaneamente a due leggi in opposizione. Se l’antinomia è sostenuta dall’Io, allora si parla di funzione trascendente, ma se scade in conflitto il nostro Io si identifica con uno o con l’altro dei poli in opposizione e la transizione si blocca poiché il polo che è stato eliso si ripresenta sbarrando la strada alla transizione.

Oggi, potremmo dunque dire, siamo in un momento di rischio della transizione. Stanno cambiando gli equilibri del mondo e questo è il punto che esige grande attenzione, poiché i transiti a volte possono non essere evolutivi.