La Psiche e la Guerra: la prospettiva freudiana (parte 2)
Nel 1915 Sigmund Freud pubblica un testo essenziale a cui riferirsi quando si parla di guerra : “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”. Qui lo studioso chiarisce che la storia umana è il lungo processo di civilizzazione di Thanatos, cosi come di Eros, una civilizzazione della pulsione libidica e dell’istinto di morte. Secondo tale visione, il corteggiamento è al posto dello stupro cosi come un confronto tra argomentazioni opposte sostituisce un’aggressione fino all’omicidio. Quindi in quest’ottica la guerra diventa una regressione al mondo arcaico primitivo, dove vale la legge dell’ “homo homini lupus” (trad. :”uomo lupo per l’uomo”), una “lex talionis” (trad. : “legge del taglione”), cioè un “occhio per occhio dente per dente”, se vogliamo citare un detto popolare, in cui la componente di risposta non mediata dal pensiero si incanala preferenzialmente nel cunicolo dell’aggressività e della supremazia violenta sull’altro, in un rapporto dominante-dominato. Il tabù civilizzatore del “non uccidere” decade dunque in guerra per le ondate regressive pulsionali cui è sottoposto lo psichico che, come dice Pierre Janet, abbassa il proprio livello, un “abbaissement du niveau mental”, ovvero una reattività dello psichico molto più alta del solito perché più bassa è la soglia di stimolazione cui esso diviene sensibile. La temperie emotiva della guerra, con i morti che via via aumentano e l’inosservanza delle regole di mutuo rispetto della vita, prima assunte come convenzioni date, ora esalate e dissolte sotto i colpi del prevalere sull’altro da vincere e sottomettere comunque al proprio imperio, costituiscono il nuovo milieu o mondo circostante, che contribuisce all’abbassamento di soglia della reattività psichica e quindi all’incrudelimento proprio ad una natura ferina. E’ quel che accade quando l’uomo torna ad uno stato di “homo naturae” (trad.: “uomo di natura”, ovvero quella condizione in cui, secondo Lévy-Bruhl, l’individuo di una tribù tradizionale e indigena, per esempio africana, proietta sulla natura ciò che non riconosce come fenomeno psichico proprio. In questa condizione psichica ad esempio, cacciare troppi animali può voler dire per costui attendersi una ritorsione dalla foresta che si vendicherà attraverso insidie volte ad aggredirlo secondo una intenzionalità, ora proiettata in un albero che lo travolge ora in un fiume che lo inghiotte. Lévy-Bruhl parlerà in questo senso di “partecypation mystique“, ovvero uno stato in cui non c’è alcuna differenza tra percepiente e percepito, i quali vivono in una simbiosi sensoriale tale che il soggetto è sotto l’influsso di una “identità arcaica” che diviene poi inconscia nel processo di civilizzazione presieduto, ma fino ad un certo punto controllato, dal pensiero differenziante. Il concetto di partecypation mystique sarà poi ripreso da Carl Gustave Jung per orientarsi nella ricerca e nell’approfondimento degli archetipi dell’inconscio collettivo (vedi parte 3). Ecco dunque farsi più comprensibili i crimini di guerra come portato precipitato delle reazioni difensive che assumono l’aspetto di ritorsione e vendetta in un processo di sempre maggior attivazione dell’asse libidico polarizzato nelle due facce, rispettivamente, attive e passive ovvero sadico-masochistiche di un’unica medaglia: quella dell’impianto pulsionale perverso. In effetti possiamo parlare di un impasto perverso quando la libido non trova un canale diretto di soddisfazione della propria scarica ma cerca vie indirette di raggiungimento dello scopo al posto di quello originario. Valga per tutti l’esempio di un gruppo di preadolescenti maschi che si costituiscono come branco delinquenziale, così come evidenziato da Donald Meltzer. Qui la pulsione libidica comune a tutti loro sarebbe dimensionata secondo impulsi omoerotici latenti, cioè non consapevoli, relativi ad uno stato indifferenziato dell’identità sessuale psichica e di indifferenziazione tra membri di uno stesso gruppo, il cui sviluppo è bloccato dalla negazione di identificazioni omofiliche, negazione derivante dalla difficoltà di un’elaborazione del complesso edipico che porta alla scelta d’oggetto d’amore. La negazione come meccanismo inconscio difensivo perverte, cioè devia, la pulsione sessuale, che secondo Freud contiene già in sé una certa aggressività con sopraffazione dell’altro, verso l’attacco e la distruzione dell’oggetto stesso interno d’amore, i soggetti cedendo quindi all’impulsività distruttiva che rende morto, cioè mortifica, ciò che si manifesta come amore e vita. Il gruppo quindi cementa il proprio legame libidico attraverso una pulsione distruttiva che in realtà ha alla sua origine una mancanza elaborativa rappresentazionale psichica della pulsione erotica. Per questo possiamo dire che la psicosi è imparentata con la perversione criminale, in quanto in entrambe le configurazioni si assiste all’azione indisturbata del meccanismo difensivo della negazione, che è ancor più regressiva e potente rispetto alla rimozione mentre è vicina all’altra sua compagna, la scissione. La scissione dell’oggetto psichico potrebbe essere accompagnata dal processo di frammentazione dell’oggetto stesso fino alla rappresentazione di una sua polverizzazione attraverso lo sminuzzamento delle sue parti. Un’ulteriore interpretazione della guerra a livello intrapsichico la dobbiamo alla riflessione acuta dello psicoanalista Franco Fornari, che nella sua relazione al Congresso di psicoanalisi a Milano nel 1964 poi divenuta libro dal titolo “Psicoanalisi della guerra”, avanza l’ipotesi ampiamente condivisibile di un’eziologia patologica da lutto irrisolto alla radice dello scatenamento della guerra. Ciò riguarderebbe sia il versante individuale di un leader che conduce alla guerra il suo popolo, di solito a capo di regime totalitario, sia un’intera collettività riunita in nazione con forti basi identitarie relative all’appartenenza dei suoi membri sotto un’unica bandiera. In entrambi i casi vi sarebbe al fondo un irrisolto lutto da separazione rispetto ad un’unità perduta, sia che la separazione riguardi una vicenda personale nella storia di vita del tiranno, sia relativa ad un’ideale di patria sentito come ingiustamente violato ed estorto. La mancata elaborazione del lutto porterebbe poi ad una scarica dell’emozione correlata di rabbia e aggressività per distruggere l’oggetto d’amore internalizzato e avvertito come cattivo. Concludiamo questa seconda parte con un pensiero che Freud ebbe a scrivere tra il 1930-1938, ovvero gli anni subito precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale, reperibili in Opere vol. 11 pg. 303: “Poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia”.