Pietro Salemme

Psicologo Psicoterapeuta a Roma

Il disagio psichico e l’isolamento da pandemia

 

di Pietro Salemme

Quando si pensa il disagio psichico subito un’immagine può farsi presente alla nostra attenzione o in forma di un qualche ricordo visivo o in forza di un immaginario collettivo che nel tempo della storia umana si è sedimentato intorno alla follia: la condizione di isolamento di una persona che intorno a sé ha un vuoto di rapporti o a cui è difficile per gli altri avvicinarsi. In associazione a tali immagini è possibile sempre notare il misterioso fenomeno di beneficio catartico nella comunità umana che liquida così il male in uno spazio remoto. In verità gli studi di Michel Foucault, che ha delineato nella sua Storia della follia un excursus di come nelle epoche siano cambiati i sistemi di internamento, o la ricerca sul campo di Erving Goffman, che nel suo Asylums descrive, dopo essersi introdotto nel manicomio sotto le mentite spoglie di degente, i movimenti di una micro-societasinterna dotata di vantaggi e servizi non forniti ufficialmente ma derivanti da reciproche identità e ruoli che l’istituzione cuce addosso al malato e dopo, infine, gli studi antropologici di Thomas Szasz sulla costituzione di un mito sociale della malattia mentale, è emersa chiaramente l’azione del meccanismo di capro espiatorio, in cui il paziente psichiatrico è posto e con il quale è espulso dal consesso sociale.

Sarà appunto la visionarietà di Franco Basaglia a ispirare la rivoluzione della legge 180, che non solo considera chiusa la lunga stagione dell’internamento con l’abbattimento simbolico delle mura di cinta dell’ospedale psichiatrico di Trieste e il corteo di degenti e ospedalieri che sfila lungo le vie della città – è il 1973 –, ma rovescia la prospettiva della cura ponendo al centro il ‘malato’ come soggetto e non più la malattia. Con la legge di riforma si aprono le strutture intermedie sul territorio, le comunità nelle 24 ore, i centri diurni dove si conducono attività terapeutico-riabilitative e presidi che sono in osmotica relazione con un territorio che entra dentro le strutture tramite associazioni e volontariato della società civile e accoglie la presenza dei pazienti che divengono fruitori di servizi al pari degli altri cittadini. In questi centri la cura si svolge con delle équipe integrate da una plurivocalità di saperi, non unicamente sanitari, ma con afferenze di maestri d’arte, artigiani, che possono avviare a tirocini di lavoro o fondare gruppi di esperienza terapeutica dalle più varie figure: dal teatro al cinema, dalla cucina alla tessitura, dal giornalismo alla scrittura creativa alla street art e via dicendo. In tal modo lo stigma, che istituiva con l’internamento manicomiale una sostanza identitaria potente, sia per la percezione di sé come malato sia per la percezione sociale, viene a dissolversi, perché rientra nella comunità umana ciò che è stato espunto come scarto da rimuoversi simbolicamente.

Dunque, l’internamento e l’isolamento sono compagni di sventura psicologica, poiché lo psichico ha bisogno del nutrimento vitale che trae dalle relazioni umane. L’isolamento comporta in sé l’alienazione, ovvero il presentarsi dell’alter come alienus. Il processo psicologico riguarda sia l’altro in quanto vivente, sia l’altro che è dentro di sé e che non si riconosce più dotato di caratteri di familiarità. In tal senso abbiamo visto come le misure di contenimento pandemico abbiano innalzato la richiesta di interventi psichiatrici, proprio per la dimensione di deprivazione relazionale e per la conseguente alterazione sensoriale, con i vissuti di angoscia persecutoria e depressiva della popolazione civile. Si è osservato, d’altro canto, come le comunità e i centri diurni psichiatrici, durante la pandemia, abbiano accusato in minor misura gli effetti da isolamento, poiché protetti dalla vita di scambio che all’interno si conservava. In un esempio mirabile che qui brevemente delineiamo, un gruppo di utenti del Centro diurno Antonino di Giorgio del dipartimento di Salute mentale della Asl Roma1, proprio durante gli oscuri tempi della pandemia, è riuscito a firmare la sceneggiatura di un cortometraggio dal titolo Percepire l’invisibile. Il gruppo, coadiuvato dal regista Tino Franco e dal docente di sceneggiatura Matteo Martone, con l’ausilio dell’équipe di psicologi, ha creato la sceneggiatura che narra la storia di un amore di coppia in cui uno dei due partner vive la condizione di disoccupato associata alla sua invisibilità, che l’amore però riesce ad annullare magicamente ridandogli di volta in volta corpo. Si tratta di una riflessione sull’invisibilità sociale dei senza lavoro, ma anche sulla dimensione impalpabile dello psichico che anima il mondo a dispetto di una presunta superiorità dell’oggettivazione, imperante nell’epoca contemporanea, a scapito dell’esperienza soggettiva della vita.

Il corto è stato recitato da due attori professionisti e il gruppo di utenti ha potuto seguire dal vivo la lavorazione filmica essendo presente sul set, rilasciando via via dei commenti nel backstage, che poi hanno costituito il tessuto per un docufilm a corredo del corto della durata di circa 50 minuti. Ne è nata un’opera di vasta umanità e di contributo artistico, in cui gli utenti sono entrati a pieno titolo nella veste di autori che, come tali, stanno ricevendo riconoscimenti nelle pubbliche sale italiane. Le buone pratiche che derivano dalla legge 180 possono dunque portare all’arricchimento immateriale di pensieri e visioni che procedono dai margini periferici della società, influenzandone lo sviluppo evolutivo verso forme di maturità della coscienza civile, di rispetto dei diritti umani e di orizzonti di innovazione creativa e artistica degni di nota.

Immagine: Egon Schiele, Die eine Orange war das einzige Licht 19-4-1912, 1912. Crediti: Albertina Museum, Vienna

PER SAPERNE DI PIÙ

© Istituto della Enciclopedia Italiana – Riproduzione riservata

Fare un film insieme: Cura di Gruppo, Azione!

Come si vede in queste immagini del servizio di “Medicina Trentatré”, rubrica del Tg2 Rai (https://www.pietrosalemme.it/wp-content/uploads/2022/10/19b40de3-2a61-48b5-b07c-831e7e137e34.mp4), un gruppo ha in sé moltissime potenzialità di sviluppo creativo e quindi curativo. Infatti la dimensione della creatività può avvenire nella solitudine e nel raccoglimento ma anche nella condivisione relazionale. Prima di tutto è necessario costituire un gruppo tramite la partecipazione dei singoli ad un progetto che il gruppo ha in animo di realizzare. Questo gruppo aveva il fine di riunirsi una volta alla settimana per vedere dei film insieme, commentandoli in una discussione aperta alla fine di ogni proiezione, che questa fosse presso il Centro terapeutico o che avvenisse nei cinema della capitale. Col tempo il gruppo stesso e i singoli membri hanno maturato una competenza filmografica di circa dieci anni e la consapevolezza di tale capacità di orientamento tra i generi di varie pellicole lo ha condotto a decidere di intraprendere il percorso di formazione in arti cinematografiche. Si è cercata un’associazione sul territorio limitrofo che potesse fornire l’aiuto di un docente in regia e di un docente in sceneggiatura, e si è così iniziato il corso che è durato due anni. Via via che i pazienti frequentavano il corso di regia e sceneggiatura, coadiuvato da chi scrive in qualità di psicoterapeuta, è emerso il desiderio unanime di cimentarsi nella scrittura di una sceneggiatura di un cortometraggio, recitato da attori professionisti. Si è poi scelto di girare anche un documentario sul backstage durante la lavorazione del corto, narrando la storia del gruppo e dei singoli e il loro concepimento di una scrittura di copione sul tema del lavoro, dell’amore e dell’invisibilità. Ne è nato un docufilm di circa 50 minuti che sta ora girando per le sale della città riscuotendo un discreto successo di gradimento, dal titolo “Percepire l’invisibile“, di cui qui di seguito si può vedere il trailer : https://vimeo.com/572069254.

Ma in cosa consiste la cura per mezzo della creatività? La prima questione che un gruppo deve affrontare è la possibilità di essere costituito come gruppo di lavoro, in tal caso il lavoro essendo la dedizione del gruppo alla visione e condivisione di immagini filmiche. La discussione che segue la proiezione, il classico “dibattito” di morettiana memoria, consiste nel prendere la parola per esprimere in gruppo emozioni, pensieri, ricordi e analisi critiche sulla struttura stessa del film, anche attraverso comparazioni con altre pellicole o con romanzi letterari o con opere pittoriche artistiche. Questa fase è delicata e necessita di un conduttore che possa facilitare gli scambi interattivi, favorendo il più possibile la comunicazione, assicurando il livello di democrazia psichica secondo cui ognuno dei membri ha diritto ad esprimersi o a stare in silenzio ed ascoltare, cercando lo stesso conduttore di attenuare le asperità di confronto, laddove queste si sviluppino, o di mantenere e custodire la capacità del gruppo di dialogare nella tolleranza. Si tratta di attivare una dimensione di ascolto dell’altro, ovvero un gruppo che ascolta chi abita nel suo spazio e che si ascolta come sé stesso ovvero come altro da sé, che ospita cioè al suo interno le immagini inconsce che vengono alla luce della consapevolezza tramite il linguaggio narrativo. Questa dimensione di ascolto come assetto in cui entra il gruppo ha a che fare con la creatività, nel senso che il percepire stesso dei contenuti per immagini assume in gruppo caratteristiche creative nel momento stesso in cui viene espresso e condiviso. I processi di invidia e conseguente attacco sono poi attenuati dall’azione terapeutica che il conduttore svolge attivamente. Ma pian piano il gruppo stesso inizia a disegnare i contorni di quella che è l’opera che vuole produrre.

In che senso la creatività è terapeutica? Nel momento in cui il singolo membro del gruppo concepisce una visione o uno spunto narrativo che può essere espresso, proprio in quell’istante avverrebbe il primo passo del processo creativo, il quale riguarda l’atto percettivo stesso. In effetti l’atto percettivo stesso è la nascita creativa di sé stessi come percipienti, ovvero il percepire stesso del bambino è sentito come meravigliosa scoperta del mondo nell’istante in cui esso sente di creare ciò che, ad esempio, vede (cfr. Winnicott). Dunque il pensare per immagini, tipico del processo di condivisione di un gruppo di lavoro, è in sé atto creativo. Quando il soggetto pensa in gruppo insieme ad altri soggetti che come lui riflettono, allora può entrare in ascolto di sé stesso accorgendosi di creare delle immagini relative o legate al discorso, secondo la tecnica dell’associazione libera di idee. Nella fase di “brain storming” l’atto creativo è porto al gruppo che ascolta e si alterna con altri atti creativi. In quel passaggio il soggetto inizia a godere di un rispecchiamento che consiste nel ricevere un’immagine di sé a feedback che fonda l’atto di specularizzazione di un sé agente, nel senso di pensante. In effetti il pensare si configura come atto, come un’azione che viene percepita dal soggetto, che nel momento in cui la forma dentro di sé può percepirla in vario modo e con livelli di consapevolezza variabile, ma essenzialmente la realizza nell’istante in cui la può comunicare agli altri in ascolto. A questo punto accade un ulteriore processo, ovvero quello che porta al confronto con altri contributi diversi. Il momento creativo sposta il suo focus di compimento maggiormente sul gruppo che deve integrare le diverse forme di visione per giungere ad un’opera che sia plurivocale e al contempo univoca. Ogni opera d’arte infatti contiene in sé una plurisignificazione e multistratificazione di senso che poi si moltiplica ulteriormente a seconda del vissuto che fa scaturire nel fruitore. Quindi possiamo dire che questa esperienza di creatività di gruppo, oltre a significare un potente ri-specchiamento della capacità creativa del singolo che, secondo la lezione di Lacan, grazie al gruppo con funzione simbolica materna, riceve la propria immagine riflessa mentre crea, allo stesso tempo questa stessa esperienza di creazione promuove un ampliamento del campo della co-esistenza cioè dell’essere insieme agli altri, ovvero contribuendo all’esistere nel mondo degli altri. Infine ciò che risulta terapeuticamente importante sembrerebbe essere il processo di scelta che il gruppo deve poter operare nei confronti degli elementi spuri da scartare o di quelli preziosi da includere, andando tutti insieme verso la creazione dell’opera. L’impresa da portare a termine come prodotto fruibile muove il gruppo che si muove verso e ciò non può non far pensare alla ricchezza di modelling per imitazione che i singoli membri possono ricavare per sé stessi dall’esperienza di scelta e azione gruppale trasformativa nel mondo.