Cosa significa riapertura, cosa vuol dire ripartenza, come progettare il cambiamento e come prevenire possibili perturbazioni psicologiche, queste ed altre domande si affacciano al nostro sguardo interno mentre ci apprestiamo a ritornare ad un minimo di consuetudine della normalità del quotidiano, così come la vivevamo prima della pandemia. Perché se è vero che non sarà come prima, come spesso si sente dire, nel senso che l’esperienza pandemica ha messo a confronto la psiche collettiva con il morire, nello stesso tempo non possiamo che dire che la vita, come forza di Eros che la anima, non potrà essere fermata e quindi si riaffermerà e vincerà continuando. Affrontiamo quindi il primo ambito, ovvero quello della morte. La morte come evento è qualcosa che sempre ci rappresentiamo ma cui sempre cerchiamo di sfuggire. Ma le parole di Seneca secondo cui “ogni giorno moriamo, ogni giorno una parte della nostra vita si consuma”, ci possono essere di ausilio nel considerare la dimensione trasformativa insita nella morte, che bisogna intendere nel suo proporsi come luogo del mistero, dell’ignoto che inquieta e del cui viaggio extracorporeo – cui da più parti ci si riferisce sia in filosofia socratica, per esempio, relativamente al viaggio dell’anima o psychè, sia in letteratura, sia secondo le diverse confessioni religiose e sia da parte di coloro che hanno avuto esperienze, poi raccontate, di esperienze limite di uscita dal corpo e successivo rientro – possiamo appunto avere immaginazione ma sempre fino ad un punto di riflessione che poi si arresta per approfondirsi e incunearsi come meditazione sull’ignoto. La pandemia dunque ha posto di fronte a tutto il collettivo mondiale, ma direi soprattutto a quello del mondo occidentale, il problema del morire, il quale ha irrotto con frastuono sulla scena della nostra tranquillità tecnologica. E’ vero infatti che tutto l’avanzamento tecnologico e il progresso scientifico fin qui accumulato offrono l’illusione di sconfiggere la morte, ma questa è appunto l’illusione da cui ci siamo risvegliati, a causa del Covid, con la coscienza del morire, ovvero del fatto che l’uomo è mortale. Questa dimensione è profondamente umana e quindi non bisogna adottare una modalità del suo scansamento ma bisogna accogliere la domanda che l’uomo costantemente incontra nel suo cammino: chi sono, da dove vengo e verso dove mi conduco. Evitare questa domanda implica accantonare il senso che ha la vita, in cui si pone la ricerca di senso e di cui fa parte il discorso della morte.

Ma la vita vuole continuare e comunque si impone, perché non può essere fermato il dio che la sostanzia : Eros. Non sono queste solo facili suggestioni tratte dal mondo classico, ma effettive dimensioni in cui opera Amore inteso come spazio dell’incontrarsi e del libero creare. Il vocabolo stesso di ri-apertura ci chiama ad un nuovo passaggio presente nel prefisso “ri”. Cosa si “ri-apre”? Dobbiamo considerare come l’essere si manifesti con apertura, secondo il filosofo Heidegger. La manifestazione dell’essere avviene come disvelamento rispetto al precedente ritiro nel recetto o spazio di accoglienza nascosta, che potremmo dire anche essere la morte. Nel fenomeno l’essere appare – da “fainomai” che in greco antico significa “mi manifesto” – e dopo l’apparizione e il suo massimo fulgore, esso, cioè l’essere, si nasconde nel suo recetto, donde l’apparire e il suo scomparire in una dinamica del divenire. Ad esempio in un fiore che sboccia possiamo vedere l’azione dell’essere che vi abita, nel suo appassirsi quella del suo scomparire, nascondendosi. Quindi noi adesso stiamo andando verso una ri-apertura, ma cosa significa il ri-aprirsi? Forse un delicato passaggio germinativo che abbisogna di cura e lenta ma progressiva frequentazione. La frequentazione qui è da intendersi come sostare presso ciò di cui si ha cura e con cui possiamo sviluppare un rapporto di fiducia che aumenta nel tempo. Non bisogna dunque affrettarsi seguendo l’entusiasmo di chi allenta le briglie del destriero lanciandosi al galoppo, perché questo modo di trattarsi è poco protettivo di sé! Noi tutti abbiamo comunque attraversato un’esperienza di de-privazione e isolamento dati dal distanziamento all’interno delle abitazioni e lontano dai rapporti amicali o parentali, evitando il contatto corporeo che nutre psichicamente, oltre che somaticamente perché responsabile della liberazione di endorfine. Dunque siamo più fragili e affamati, e così come ci si orienta in caso di de-nutrizione, allo stesso modo non si recupera tutto il fabbisogno perduto con una scorpacciata, anzi il movimento di reintegrazione nel ritmo di vita e di socialità deve seguire un accostamento, cioè un avvicinarsi, per rendere possibile la rinascita. Il gettarsi nel bel mezzo della ripresa a tutta velocità può condurci a disturbi del tono dell’umore, che poi potrebbero portarci ad esporci a situazioni che non riusciamo a mettere sotto il controllo della coscienza vigile. Ad esempio è bene accorgersi della velocità con cui procediamo in automobile, certe insofferenze ai semafori nell’attesa della luce verde debbono indurci a cambiare una tendenza interiore ad accelerare, al non voler attendere perché il tempo ci sfugge come sabbia tra le dita. Tali percezioni di sé possono servire da automonitoraggio per attenuarsi e ristabilire un buon andamento interno che sia rispettoso di una propria disponibilità ad ascoltarsi. L’ascolto di sé in questo momento di ripresa diviene l’ingrediente principale per gustare ogni aspetto dell’esistenza, dal nutrimento degli alimenti al nutrimento delle relazioni. Potrebbe capitare, durante l’ascolto di sé, di recepire o entrare in contatto con paure verso il futuro ignoto o con un sentimento di melanconia relativa ad esperienze che riaffiorano con associato un senso di perdita irrecuperabile. Bisogna considerare che tali oscillazioni fanno parte del processo elaborativo, quindi è importante darsi del tempo, un tempo non con scadenza ma in cui lasciare decantare le proprie dimensioni fantastiche e di riflessione. Il tempo della condivisione sembra essere quello maggiormente curativo in questo momento post-pandemico. Le relazioni hanno sofferto l’assenza e la privazione prolungata, per ciò anch’esse debbono trovare ristoro progressivo e non lanciato sulle direttrici del compensare con esperienze ordaliche e eccitatorie il tempo perduto, consumando, come fa il fuoco con il tizzone ardente, le energie rappresentate alla propria psiche e a quella degli altri come represse e compresse, cui dare finalmente sfogo. Anche le relazioni hanno bisogno del processo elaborativo che può, ed è meglio che sia, condiviso in un rapporto protetto in cui scambiarsi impressioni, ricordi pre-pandemici, ed esperienze durante la pandemia, in modo da ri-dischiudere lentamente la speranza nel futuro. Piccoli regali, delicate gentilezze, accortezze premurose possono essere il leit motiv di una cura delle ferite che avviene in comune, ognuno per la parte di proprio dolore di cui è portatore. Le “carezze” positive sono un unguento portentoso per aiutare l’elaborazione personale in dialogo con un collettivo più lento del singolo individuo. La lentezza dei processi elaborativi del collettivo rispetto a quelli individuali è proverbiale da un punto di vista psichico. E’ infatti una costante nella storia umana notare come si instaurino degli automatismi deleteri da cui è faticoso uscire. L’automatismo psichico può costituirsi sia nel singolo che nel collettivo e in quest’ultimo caso il processo di uscita dal meccanismo automatico è più lento. Ad esempio uno degli automatismi collettivi sembra essere una paura, che chiameremo fobia, rispetto alla possibilità di cadere malati, una sorta di ipocondrizzazione che già da tempo è reperibile nei comportamenti di una larga fascia di popolazione. Mi riferisco non, ovviamente, alle dovute precauzioni contro il rischio di contagio, quanto ad un uso sconsiderato dei dispositivi sanitari, come mascherine e prodotti igienizzanti di cui spesso si abusa con conseguenti escoriazioni epidermiche, ben oltre quelli che sono i consigli dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità). In questo ambito molti soggetti vivono ormai reclusi in casa senza uscire, per una sindrome depressiva che è mascherata con evitamento sociale per paura del contagio, che a quel punto è divenuto psichico.

In ultimo si dovrebbe meditare su quel detto di Epicuro, filosofo greco del IV sec. a. C., che diceva press’a poco così : “quando c’è la morte io non ci sono, quando io ci sono, la morte non c’è!”.