Pietro Salemme

Psicologo Psicoterapeuta a Roma

La Guerra e la Psiche (parte 1) : le pulsioni Eros e Thanatos

La guerra è un fenomeno umano che si avverte avvenire all’improvviso. Che la guerra fosse in arrivo, figurativamente impersonata dal dio Marte che in tutta baldanza piombava sulle genti armato di corazza elmo e schinieri, brandendo spada e quant’altro d’uopo alla pugna, il civis romanus poteva percepirlo dalle porte del tempio di Giano, il dio bifronte, che si chiudevano in tempo di pace e si aprivano in tempo di guerra. Questo dettaglio della bifrontalità può darci già un potente indizio circa la natura della belligeranza che poi si realizza nelle battaglie sanguinose : il caos che regna e diviene avversità, cioè ciò che è contrario all’armonia delle cose e tutto agita e scompiglia. Infatti l’essere rappresentato del dio Giano con due volti che guardano in opposizione l’uno all’altro e appartenenti ad un unico corpo, echeggia la mancata differenziazione di parti psichiche, proiettate nella divinità romana arcaica, ovvero la natura sincretica indifferenziata e simbiotizzante che esula dal processo di coscienza e appartiene al versante inconscio, di cui non si è quindi consapevoli, dal fondo di mistero, inconoscibile e agente sulla coscienza con una potenza tale da sconvolgerne i suoi due principali parametri di strutturazione : il tempo e lo spazio. Dunque con questa prima immagine culturale religiosa ci si addentra nei luoghi della guerra che sono psichici ancor prima di divenire concretamente apprezzabili come distruzione di vita e di opere umane. Lo psichico è di natura essenzialmente inconscia, pulsionale, e può costituirsi, in una delle sue molteplici forme, come trieb, che in tedesco è la spinta o pulsione, un concetto che Freud definirà al limite tra lo psichico e il corporeo. Le pulsioni traggono origine dall’organizzazione corporea e trovano nell’Es, ovvero un’istanza antica ed ereditata fin dalla nascita e quindi inconscia, una loro espressione psichica. L’Es è, secondo Freud, la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il poco che ne sappiamo lo traiamo dallo studio dei sogni e dalla formazione dei sintomi psicopatologici ed esso vuole la scarica pulsionale da cui il senso catartico di depurazione che vi è connesso. Allora il suo carattere è primitivo e irrazionale, poiché si contrappone all’Io come giudizio di realtà, e si oppone anche all’impianto dei valori, delle norme, ovvero all’istanza morale che ha il nome di Super Io. Il meccanismo che rende quasi inconoscibile l’Es dall’Io, se non con sogni, atti mancati, lapsus verbali o motti di spirito e fantasie ad occhi aperti, è la rimozione. Nei processi onirici l’inconscio e le pulsioni trovano una loro possibilità rappresentativa e quindi possono essere compresi dall’Io, che li integra nella personalità totale. Le due principali pulsioni sono quelle che già Empedocle, filosofo greco presocratico di Agrigento vissuto nel V secolo a.C., indicava come Filia e Neikos, ovvero Amore e Odio, che poi Socrate riprenderà nei dialoghi platonici come Eros e Thanatos. Per il filosofo agrigentino i due principi erano alla radice della costituzione dell’universo e attraverso il loro incontrarsi e alternarsi istituivano il principio creativo e distruttivo di ogni forma vivente e al contempo cosmica, ovvero erano deputati a sovrintendere a ciò che nell’universo consta di ordine e disordine. E’ infatti nel vocabolo greco cosmeo, da cui il termine contemporaneo di ”cosmesi”, che ritroviamo il senso ordinatore, dell’abbellire facendo ordine. Anche Socrate riprenderà spesso il discorso di Eros come divinità generativa e creativa, che non riguardava soltanto la dimensione dell’amore sensuale o della filia come modo di vivere tra uomini che sono ben disposti e favorevoli reciprocamente al fatto umano, ma anche la forza della fusis o natura all’interno della quale spinge per emergere il rinnovamento come crescita rigogliosa. E, come dirà Socrate, non è possibile che la creazione, e nella natura e nel cosmo e nell’amore tra esseri viventi, non sia opera di Eros. Anche un altro dio era ritenuto responsabile di una forza generatrice, Dionysos, che attraverso la vite e la bevanda che ne deriva come vino, possedeva la capacità di donare la transe che poteva portare il disordine come potenza della natura, potenza di una vita inesauribile. La potenza della vita si rivela anche come follia che in questa dimensione del dionisiaco mostra la sua misteriosità che è anche il mistero dell’esistenza e della morte. Una follia, che nell’ebbrezza del dionisiaco che si sprigionava come forza vitale, portava con sé anche un quantum di distruttività : per analogia quel che nel parto si mostra come dolore e generatività, ovvero un processo vitale che ha in sè la tragicità dell’abisso di senso a cui l’uomo è continuamente chiamato per interrogarsi sul nascere e sul morire, su cosa significa vivere, su cosa significa scomparire. E’ in questa densità oscura, che oscilla tra i manifestarsi prodigiosi della vita – come possiamo vedere da un seme che germoglia magicamente o da un bambino che con sforzo esce dal ventre materno – che possiamo percepire l’inquietudine e la meraviglia che ci coglie di fronte al dispiegarsi della potenza della gemmazione dell’essere. La follia è quello sporgersi nell’abisso, come accadrà a Nietzsche nella sua esperienza di penetrazione del pensiero cui lo stesso soccomberà, che apre al senso come ricerca tragica senza mediazioni e che per ciò, facendo sporgere l’individuo nel precipizio dell’inconoscibilità, rimane essa stessa avvolta da mistero insondabile. Ecco in qual senso duplice intende Freud la vita pulsionale secondo cui prende forma lo psichico. E’ chiaro che una volta che la distruttività di Thanatos signoreggia, l’individuo ne è pervaso e Eros cede il suo passo, sotto i colpi violenti e nullificanti di Thanatos. Il principio tanatologico a differenza di quello erotico ha infatti la peculiarità di rendere morto, nel senso di ridurre a niente, il vivente e l’opera del vivente, tanto che abbracciare Thanatos conduce alla rovina e all’annientamento. Viceversa il principio di Eros ha la caratteristica della sua stessa potenza che è il continuare, il preservarsi e il generare. Queste due dimensioni dell’accadere psichico possono rintracciarsi nell’individuo singolo, cosi come nel piccolo gruppo, nel large group (40/80 persone), e in una nazione intera, di cui dobbiamo prevedere una manifestazione psichica collettiva del suo esistere come massa attraversata da immagini primordiali, che Jung nella sua riflessione ha denominato archetipi.

Un esempio di Gruppo Terapeutico

Un’esperienza basagliana a Roma: cinema e gruppo

Da circa dieci anni un gruppo di utenti del Centro Diurno Riabilitativo del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma1, insieme allo psicoterapeuta e agli psicologi del centro stesso, ha creato un laboratorio di cineforum con visione in gruppo di numerose pellicole. Andando al cinema e commentando insieme i film su uno specifico blog, pian piano il gruppo ha sentito l’esigenza di sperimentarsi nella scrittura-sceneggiatura di un film e per questo ha preso contatto con il teatro di posa “Nel Blu Studio”. Di qui è nato un corso di sceneggiatura tenuto dal docente Matteo Martone e coadiuvato e diretto per le riprese dal regista Tino Franco. Lo psicoterapeuta Pietro Salemme e gli psicologi James Franco e Giacomo Bucolo, che hanno seguito il progetto in tre anni, di cui due in piena pandemia, sono stati costantemente all’interno del gruppo in una dimensione esistenziale alla pari, ovvero in cui ogni membro del gruppo, fosse esso regista, sceneggiatore, utente portatore di disagio, o cameraman o psicologo, cooperava alla dimensione creativa per scrivere e mettere su pellicola una storia. Per questo può dirsi un’esperienza basagliana, poiché il gruppo integrato e inclusivo ha condotto un’operazione creativa di ricerca-azione che, ispirandosi alla visione del mondo di Franco Basaglia, si è liberato dei vincoli di ruolo istituzionale, ha oltrepassato i confini del centro di cura, e creando un’opera cinematografica, ha condotto un’azione auto-terapeutica, che poi è confluita in una comunicazione terapeutica per l’intero collettivo sociale. Infatti il tema dell’invisibilità, scelto come idea originaria dagli utenti stessi, riguarda ciò che non trova rappresentazione sia su un piano intimo, da cui l’esigenza di esprimere ciò che si vive, sia su un piano sociale, da cui il focus riflessivo proposto al collettivo sulla marginalità del disagio cui porta anche la mancanza di inserimento lavorativo. L’amore come Eros è il deus ex machina della rappresentazione messa in scena dal gruppo, poiché fa vivere e germogliare alla luce ciò che altrimenti è relegato nell’ombra dell’inconsapevolezza sociale e dei singoli individui. A corredo del cortometraggio scritto dal gruppo, vi è il documentario che testimonia le riprese nel backstage e sul set, dove gli autori in gruppo e intervistati singolarmente, danno voce all’invisibile per tentarne una rappresentazione che implica la domanda del diritto ad esistere e ad amare.

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MORGANA STUDIO

in collaborazione con

REGIONE LAZIO COMUNE DI ROMA ASL ROMA 1 AELLE IL PUNTO

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NEL BLU STUDIOS KWAAUI.COM

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con la partecipazione di

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TONY MARTONE

Un film documentario di Tino Franco (film + cortometraggio 40″)

Due anni di confronto, riflessioni e riprese, in era COVID.
Un gruppo di utenti-sceneggiatori del Dipartimento Salute Mentale. La loro riflessione sulle condizioni degli “invisibili” di questa società. La tragicomica brevissima epopea di un eroe scritto da loro.

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Psicoterapia di gruppo

IL GRUPPO DEL SIMPOSIO 

O DELLE 

MANIFESTAZIONI DI CURA DELLA PSICHE

Il mondo dell’altro diverso da me si configura come misterioso e affascinante, ma ciò che sembra differente si manifesta anche come simile e questa esperienza nutre la psiche e il corpo. Il gruppo diventa allora un’occasione unica per fare esperienza insieme, sia stando in relazione col mondo degli altri sia facendo contatto con le proprie emozioni scaturite dall’incontro. Parlare davanti a chi ascolta, fare l’esperienza di sentirsi ascoltati e quindi accolti, facilita i processi di apertura, di intimità e di autostima derivanti tutti dal riconoscimento proveniente dall’altro. Così attraverso la condivisione, ci si sente parte di un percorso comune, in cui ogni membro del gruppo viene conosciuto e non temuto, diviene di pari dignità esistenziale e polo esperienziale di scambio umano.

 Il gruppo si propone come un incontro a più livelli: in particolare nella psicoterapia di gruppo si può realizzare una sorta di rispecchiamento di sè stessi nella problematica portata dall’altro e il vissuto emotivo e simbolico rappresentato da questo fa in modo che anche gli altri membri del gruppo in ascolto  possano elaborare la complessità psichica insieme alla persona che la porta. Quindi il lavoro di esplorazione delle proprie problematiche interne è declinato sia su un piano personale individuale sia su un piano gruppale: infatti ciò che è problema di uno può divenire argomento di riflessione di un altro e del gruppo stesso. In gruppo si elaborano percorsi nuovi per la soluzione di problemi attraverso lo sviluppo di un senso di appartenenza a sé come soggetti e al collettivo come comunità. Il singolo sviluppa dunque un senso di solidarietà e sostegno emotivo, e il gruppo opera e favorisce la crescita psichica e il benessere relazionale dei singoli. Infatti ciò che nel gruppo si sperimenta primariamente è la dimensione relazionale oltre che intrapsichica, ovvero interiore. La figura del terapeuta lavora all’interno del gruppo per consentire i processi di conoscenza e di consapevolezza di sé e degli altri, favorendo i processi di cambiamento personale attraverso l’adozione di prospettive e punti di vista nuovi su di sé e sul mondo che ci circonda.

A questo scopo si adotta una visione teorica propria alla Terapia della Gestalt di F.S. Perls e J. Simkin, secondo cui gli individui necessitano di sentirsi attraverso il riconoscimento delle proprie sensazioni corporee e, ancor prima, di essere un corpo: ad esempio il modo di respirare, attraverso l’espressione delle proprie emozioni – gioia, tristezza, dolore, noia, attesa, paura, vergogna etc.. -, attraverso la consapevolezza dei propri bisogni e del personale modo di essere nel mondo e in relazione con gli altri. Quindi è nel qui ed ora dell’incontro relazionale terapeutico, sia con gli altri membri del gruppo sia con il terapeuta, che c’è la possibilità di ri-prendere consapevolezza sul modo di interrompere il contatto con gli altri individui, ritornando nel presente sulla propria empasse nel passato.

I significati e le storie personali che emergono dalla sedia calda, ovvero quella su cui il singolo membro del gruppo racconta la propria problematica prendendo contatto con le emozioni sottostanti, vanno a confluire in una dimensione gruppale in cui ognuno può rivedersi e dare sostegno a sé stessi e all’altro, divenendo così un’azione di terapeuticità che è insita nella gruppalità stessa.

Il vocabolo “Simposio”, che dà il titolo al gruppo, ha come orizzonte di riferimento la dimensione della domanda che s’impone all’uomo fin dall’antichità delle origini del mondo occidentale, reperibile nell’antica Grecia, ovvero la domanda sul senso dell’esistere. Il Simposio vedeva la compartecipazione di uomini liberi che discettavano di tutto ciò che riguardava il mondo della vita degli uomini e delle donne, dello Stato, delle leggi, del diritto, della vita politica della comunità, dell’amore, dell’amicizia, della natura, del sesso, della consumazione della vita così come della sua origine, della morte, del mondo divino. La sua caratteristica era la dimensione dialettica ovvero di scambio e dialogo che aveva come unico e prezioso scopo quello di custodire uno spazio dove si potesse ricercare il vero nella libertà del pensiero. Poiché la sua principale caratteristica era quella di fare l’esperienza di ciò che si lascia che accada, ovvero della verità come accadimento.



ATTIVAZIONE DI GRUPPO TERAPEUTICO

Ogni gruppo si attiva con un minimo di 3-5 partecipanti e può ospitarne un massimo di 13, nella fascia pomeridiana/serale e in alternativa nel sabato mattina, della durata di circa un’ora e mezza, con cadenza settimanale. Il gruppo attivato si incontrerà presso lo studio del dott. Pietro Salemme, sito in Via GIOVANNI DA PROCIDA 22 – 00162 Roma – PIAZZA BOLOGNA – FERMATA METRO B .

Per informazioni e delucidazioni sulla modalità di accesso al gruppo e sui costi si può contattare il numero 3385606668

Il conduttore del gruppo è il Dott. Pietro Salemme, psicoterapeuta e psicologo clinico esperto di gruppi.

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Depressione: psicodinamica interna

I sintomi depressivi sono vari nella loro capacità di comparsa fenomenologica, così come nelle loro determinanti eziologiche sia di natura esterna che interna al soggetto che ne fa esperienza. Quindi noi qui non ci dilungheremo in trattazioni ampie e sistematiche, non optando per un approfondimento esaustivo ma dando alcune suggestioni che possano essere d’aiuto nel riconoscimento di alcune forme di patologia depressiva. Prima di tutto dobbiamo ricordare ciò che dice S. Freud a proposito di depressione, ovvero questi parla di uno stato psichico in cui l’investimento libidico, inteso come energia psico-fisica, viene ritirato dal mondo esterno e attirato su di sé, ovvero sul mondo oggettuale interno, quindi comincia una dinamica intrapsichica che vede al centro degli scambi relazionali unicamente il polo di un Io ideale con cui essere in rapporto. Quando parliamo di Ideale intendiamo comunque che ci siano in azione processi psichici di identificazione, ovvero di ricerca di modelli con cui affinare un’identità cui ci si ispira. L’oggetto ideale può essere sia positivo sia negativo, ma l’importante è comprendere che il soggetto inizia ad investire su di sé in modo solipsistico, ovvero del “solus ipse”, in latino “solo con sé stesso”, e ciò sia intendendo l’assenza dell’altro in quanto soggetto diverso da me con cui entrare in relazione, sia l’oggetto intrapsichico con cui avviene l’identificazione nel fenomeno di sintomatologia depressiva. E’ chiaro che il soggetto vive, nel momento stesso in cui investe sul proprio oggetto Sè ideale, una dimensione di ripiegamento narcisistico. Nel caso di un evento luttuoso si potrà avere una depressione che verrà detta reattiva in quanto avviene in reazione ad un evento traumatico esterno. Ma la depressione può riguardare l’oggetto interno perduto e il lavoro elaborativo della perdita è il passaggio necessario per superare il momento critico depressivo. Ogni perdita di fatto comporta un’elaborazione, ogni separazione, ad esempio il conseguimento di un diploma connesso al passaggio d’età o perfino il ritorno da un viaggio in cui si è scoperto qualcosa di prezioso per sé del mondo, implica un’elaborazione depressiva che il soggetto deve poter compiere per sentire di essere cresciuto. In realtà ciò da cui ci si separa ha a che vedere con l’immagine del Sè legata alla relazione o all’esperienza che si è vissuta. Crescendo perdiamo una parte di noi che reintegriamo in nuove configurazioni psichiche cangianti. Si tratta di processi dinamici della psiche.

Non solo si parla di depressione reattiva ma anche di depressione endogena, processo patologico di natura più ingravescente che può portare anche a periodi di ricovero in strutture ospedaliere protette. Qui non siamo di fronte ad un quadro nevrotico o d’incapacità di elaborare una separazione, ma si entra nella dimensione della psicosi, in cui compare una fenomenologia delirante e/o allucinatoria. In tal caso il processo psichico utilizzato è l‘introiezione, ovvero una sorta di inglobamento psichico dell’oggetto negativo con cui poi ci si simbiotizza psichicamente. Ma non ci soffermeremo sui dettagli di sintomatologia né della precedente forma né di questa. Ci interessa maggiormente esplorare ciò che è vissuto nella depressione in relazione allo Spazio-Tempo. Parlando di ciclo ontologico la lezione di psichiatria fenomenologica si riferisce ai tre momenti temporali del passato-presente-futuro. L’essere umano vive contemporaneamente immerso in ognuno dei tre momenti o, potremmo dire, queste tre dimensioni lo attraversano al contempo, sia nel sogno che nella fantasia sia in quella che chiamiamo coscienza della realtà. Nel vissuto depressivo, essendoci prevalentemente un’identificazione o nel peggiore dei casi, una simbiotizzazione, con l’oggetto psichico perduto o morto, il tipo di tempo che prevalentemente ospita il soggetto è il passato, ovvero il soggetto è continuamente voltato all’indietro nella contemplazione di ciò che ha perduto, derivandone uno stato di perenne malinconia. il tipo entusiasta ad esempio sarà chi sosta maggiormente nel presente, che ai suoi occhi rappresenta una continua novità. Mentre chi si sbilancia nel futuro senza sosta ha una esperienza anticipatoria di quello che sta per vivere, in un’esperienza dell’accelerazione psichica, che diremmo maniacale. Il soffermarsi in uno dei tre momenti in maniera prevalente indica uno squilibrio del vissuto temporale, fino alle forme di ciclotimia ovvero maniaco-depressive in cui si oscilla repentinamente dalla depressione malinconica all’eccitamento maniacale, con un vissuto temporale e spaziale ora fermo, statico, devitalizzato, ora quello della velocità del pensiero e della rapidità del movimento e dello spostamento fisico fino all’agitazione, sia nella sua variante di contentezza esasperata che in quella della rabbia espressa in modo plateale. Spesso accade di osservare tali quadri psichici in chi fa uso e abuso di cocaina.

Esiste un’ulteriore forma di depressione che chiameremo anaclitica e che spesso è descritta nei casi di disturbo grave della personalità. Il termine “anaclitica” si riferisce ad una sorta di appoggio psicologico che l’individuo cerca nell’altro, tendenzialmente partner o amici o parenti vicini, reagendo ad una esperienza precoce nell’infanzia di abbandono. Così gli altri e la loro presenza vengono a vicariare un’assenza di struttura psichica e costituiscono un esoscheletro, ovvero una colonna vertebrale psichica, con cui l’individuo può sopperire alla mancanza e al vuoto che lo riempiono dentro. Il vuoto come vissuto può essere soppresso con l’appoggio all’altro in relazioni che a volte ricordano il parassitismo. Per questo genere di problematica l’assetto depressivo si mostra temporaneo e svanisce ogni qual volta si realizzi l’accoppiamento psichico. In tal caso non assistiamo a nessuna elaborazione della separazione dall’oggetto interno che invece di essere assorbita e integrata attraverso la dimensione depressiva viene espulsa attraverso l’inizio di una nuova identificazione con l’oggetto d’amore esterno, che il soggetto riverbera in un’unione simbiotica con quello buono interno.

Ogni forma tra quelle descritte da un punto di vista psicodinamico interno può beneficiare della cura psicoterapica. Nelle forme più gravi o nei periodi acuti dei sintomi, può esservi associata una somministrazione psicofarmacologica. Ma l’esito prognostico non è infausto, tranne in rari casi. Importante è l’intervento con una buona psicoterapia che accolga il dolore depressivo e accompagni il paziente verso una sua trasformazione elaborativa.

Riaperture e ritorno alla normalità: consigli psicologici in pandemia

Cosa significa riapertura, cosa vuol dire ripartenza, come progettare il cambiamento e come prevenire possibili perturbazioni psicologiche, queste ed altre domande si affacciano al nostro sguardo interno mentre ci apprestiamo a ritornare ad un minimo di consuetudine della normalità del quotidiano, così come la vivevamo prima della pandemia. Perché se è vero che non sarà come prima, come spesso si sente dire, nel senso che l’esperienza pandemica ha messo a confronto la psiche collettiva con il morire, nello stesso tempo non possiamo che dire che la vita, come forza di Eros che la anima, non potrà essere fermata e quindi si riaffermerà e vincerà continuando. Affrontiamo quindi il primo ambito, ovvero quello della morte. La morte come evento è qualcosa che sempre ci rappresentiamo ma cui sempre cerchiamo di sfuggire. Ma le parole di Seneca secondo cui “ogni giorno moriamo, ogni giorno una parte della nostra vita si consuma”, ci possono essere di ausilio nel considerare la dimensione trasformativa insita nella morte, che bisogna intendere nel suo proporsi come luogo del mistero, dell’ignoto che inquieta e del cui viaggio extracorporeo – cui da più parti ci si riferisce sia in filosofia socratica, per esempio, relativamente al viaggio dell’anima o psychè, sia in letteratura, sia secondo le diverse confessioni religiose e sia da parte di coloro che hanno avuto esperienze, poi raccontate, di esperienze limite di uscita dal corpo e successivo rientro – possiamo appunto avere immaginazione ma sempre fino ad un punto di riflessione che poi si arresta per approfondirsi e incunearsi come meditazione sull’ignoto. La pandemia dunque ha posto di fronte a tutto il collettivo mondiale, ma direi soprattutto a quello del mondo occidentale, il problema del morire, il quale ha irrotto con frastuono sulla scena della nostra tranquillità tecnologica. E’ vero infatti che tutto l’avanzamento tecnologico e il progresso scientifico fin qui accumulato offrono l’illusione di sconfiggere la morte, ma questa è appunto l’illusione da cui ci siamo risvegliati, a causa del Covid, con la coscienza del morire, ovvero del fatto che l’uomo è mortale. Questa dimensione è profondamente umana e quindi non bisogna adottare una modalità del suo scansamento ma bisogna accogliere la domanda che l’uomo costantemente incontra nel suo cammino: chi sono, da dove vengo e verso dove mi conduco. Evitare questa domanda implica accantonare il senso che ha la vita, in cui si pone la ricerca di senso e di cui fa parte il discorso della morte.

Ma la vita vuole continuare e comunque si impone, perché non può essere fermato il dio che la sostanzia : Eros. Non sono queste solo facili suggestioni tratte dal mondo classico, ma effettive dimensioni in cui opera Amore inteso come spazio dell’incontrarsi e del libero creare. Il vocabolo stesso di ri-apertura ci chiama ad un nuovo passaggio presente nel prefisso “ri”. Cosa si “ri-apre”? Dobbiamo considerare come l’essere si manifesti con apertura, secondo il filosofo Heidegger. La manifestazione dell’essere avviene come disvelamento rispetto al precedente ritiro nel recetto o spazio di accoglienza nascosta, che potremmo dire anche essere la morte. Nel fenomeno l’essere appare – da “fainomai” che in greco antico significa “mi manifesto” – e dopo l’apparizione e il suo massimo fulgore, esso, cioè l’essere, si nasconde nel suo recetto, donde l’apparire e il suo scomparire in una dinamica del divenire. Ad esempio in un fiore che sboccia possiamo vedere l’azione dell’essere che vi abita, nel suo appassirsi quella del suo scomparire, nascondendosi. Quindi noi adesso stiamo andando verso una ri-apertura, ma cosa significa il ri-aprirsi? Forse un delicato passaggio germinativo che abbisogna di cura e lenta ma progressiva frequentazione. La frequentazione qui è da intendersi come sostare presso ciò di cui si ha cura e con cui possiamo sviluppare un rapporto di fiducia che aumenta nel tempo. Non bisogna dunque affrettarsi seguendo l’entusiasmo di chi allenta le briglie del destriero lanciandosi al galoppo, perché questo modo di trattarsi è poco protettivo di sé! Noi tutti abbiamo comunque attraversato un’esperienza di de-privazione e isolamento dati dal distanziamento all’interno delle abitazioni e lontano dai rapporti amicali o parentali, evitando il contatto corporeo che nutre psichicamente, oltre che somaticamente perché responsabile della liberazione di endorfine. Dunque siamo più fragili e affamati, e così come ci si orienta in caso di de-nutrizione, allo stesso modo non si recupera tutto il fabbisogno perduto con una scorpacciata, anzi il movimento di reintegrazione nel ritmo di vita e di socialità deve seguire un accostamento, cioè un avvicinarsi, per rendere possibile la rinascita. Il gettarsi nel bel mezzo della ripresa a tutta velocità può condurci a disturbi del tono dell’umore, che poi potrebbero portarci ad esporci a situazioni che non riusciamo a mettere sotto il controllo della coscienza vigile. Ad esempio è bene accorgersi della velocità con cui procediamo in automobile, certe insofferenze ai semafori nell’attesa della luce verde debbono indurci a cambiare una tendenza interiore ad accelerare, al non voler attendere perché il tempo ci sfugge come sabbia tra le dita. Tali percezioni di sé possono servire da automonitoraggio per attenuarsi e ristabilire un buon andamento interno che sia rispettoso di una propria disponibilità ad ascoltarsi. L’ascolto di sé in questo momento di ripresa diviene l’ingrediente principale per gustare ogni aspetto dell’esistenza, dal nutrimento degli alimenti al nutrimento delle relazioni. Potrebbe capitare, durante l’ascolto di sé, di recepire o entrare in contatto con paure verso il futuro ignoto o con un sentimento di melanconia relativa ad esperienze che riaffiorano con associato un senso di perdita irrecuperabile. Bisogna considerare che tali oscillazioni fanno parte del processo elaborativo, quindi è importante darsi del tempo, un tempo non con scadenza ma in cui lasciare decantare le proprie dimensioni fantastiche e di riflessione. Il tempo della condivisione sembra essere quello maggiormente curativo in questo momento post-pandemico. Le relazioni hanno sofferto l’assenza e la privazione prolungata, per ciò anch’esse debbono trovare ristoro progressivo e non lanciato sulle direttrici del compensare con esperienze ordaliche e eccitatorie il tempo perduto, consumando, come fa il fuoco con il tizzone ardente, le energie rappresentate alla propria psiche e a quella degli altri come represse e compresse, cui dare finalmente sfogo. Anche le relazioni hanno bisogno del processo elaborativo che può, ed è meglio che sia, condiviso in un rapporto protetto in cui scambiarsi impressioni, ricordi pre-pandemici, ed esperienze durante la pandemia, in modo da ri-dischiudere lentamente la speranza nel futuro. Piccoli regali, delicate gentilezze, accortezze premurose possono essere il leit motiv di una cura delle ferite che avviene in comune, ognuno per la parte di proprio dolore di cui è portatore. Le “carezze” positive sono un unguento portentoso per aiutare l’elaborazione personale in dialogo con un collettivo più lento del singolo individuo. La lentezza dei processi elaborativi del collettivo rispetto a quelli individuali è proverbiale da un punto di vista psichico. E’ infatti una costante nella storia umana notare come si instaurino degli automatismi deleteri da cui è faticoso uscire. L’automatismo psichico può costituirsi sia nel singolo che nel collettivo e in quest’ultimo caso il processo di uscita dal meccanismo automatico è più lento. Ad esempio uno degli automatismi collettivi sembra essere una paura, che chiameremo fobia, rispetto alla possibilità di cadere malati, una sorta di ipocondrizzazione che già da tempo è reperibile nei comportamenti di una larga fascia di popolazione. Mi riferisco non, ovviamente, alle dovute precauzioni contro il rischio di contagio, quanto ad un uso sconsiderato dei dispositivi sanitari, come mascherine e prodotti igienizzanti di cui spesso si abusa con conseguenti escoriazioni epidermiche, ben oltre quelli che sono i consigli dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità). In questo ambito molti soggetti vivono ormai reclusi in casa senza uscire, per una sindrome depressiva che è mascherata con evitamento sociale per paura del contagio, che a quel punto è divenuto psichico.

In ultimo si dovrebbe meditare su quel detto di Epicuro, filosofo greco del IV sec. a. C., che diceva press’a poco così : “quando c’è la morte io non ci sono, quando io ci sono, la morte non c’è!”.

DAD: nocività psicologica in infanzia e adolescenza

Purtroppo con l’avvento della pandemia da Covid-19, si è avverato quello che da qualche tempo correva di bocca in bocca tra molti, ovvero la possibilità di lavorare da casa per molte fasce di popolazione in possesso dei dispositivi elettronici, e per molte famiglie di vedere i loro figli chiusi nella loro stanza mentre seguono le lezioni on line. Il parere che qui esprimerò non è di un pregiudiziale rifiuto e condanna della metodica dad, se di metodo possiamo parlare, ma delle differenze rispetto all’apprendimento dal vivo e delle conseguenze sulla vita psichica e quindi sullo sviluppo psicologico del bambino e dell’adolescente che seguono programmi d’istruzione da remoto.

Prendiamo ad esempio un bambino di quarta elementare che usi la DAD! Osserviamo come si dispone di fronte allo schermo: tendenzialmente lo fissa e vi scorge dei riquadri o icone che ritraggono i suoi compagni, visibili solo dal busto in sù, c’è chi ride, chi saluta, chi non sta fermo sulla sedia e si alza di continuo, il genitore tenta di riprenderlo e farlo sedere di nuovo, altri scrivono o giocano con altri dispositivi on line, come la play station, collegandosi fra loro. Una figura umana adulta tra le icone dei bambini legge qualcosa con gli occhi bassi sul testo, è la maestra! Le altre facce dei bambini sono mobili e non ricordano quella focalizzazione indicata da un leggero reclinare del volto e dallo sguardo intenso che segue chi parla, la maestra appunto diventa una figura tra le figure dei bambini, perde la sua magica dimensione dell’alto e del grande che insegna, così come ricordiamo da adulti rivedendoci da piccini. L’attenzione come processo psicologico che motiva all’apprendimento, rinforzandone la memoria iconica ed ecoica, muta forma virando verso un modo di guardare l’altro secondo le regole percettive che impone la bidimensionalità dello schermo piatto. La fluttuazione dello sguardo dei bambini, che non si fermano in una postura dell’interesse e della curiosità o dell’applicazione seria e finalizzata con cura e dedizione, è preminente, così come predomina il movimento continuo della testa e l’impossibilità di percepire la profondità del mondo di esperienza: tutto è superficie e come tale esplorabile in orizzontale o in verticale, ma sempre secondo una direttrice lineare che non prevede l’allungamento dello sguardo verso altre dimensioni del soggetto di relazione, quindi escludendo un approfondimento conoscitivo che sicuramente la voce guida e veicola, ma il volto iconizzato e statico non favorisce. Lo sguardo in particolare non può incontrare lo sguardo degli altri compagni né quello della maestra, perché il campo dell’inquadramento della telecamera non coincide con il focus dello sguardo che guarda l’altro sullo schermo e che a sua volta guarda il proprio schermo senza però incontrare l’occhio del compagno di scuola. Quindi si tratta comunque di incontri mancanti, cui ci si avvicina per approssimazione immaginifica, ovvero dove la componente immaginativa informa la percezione più fortemente della visione diretta e focalizzata. Soprattutto la dimensione vissuta di gruppo ovvero del fare parte di un gruppo vivente e semovente di cui il singolo percepisce di fare parte con il proprio corpo come corpo di relazione con gli altri, cambia e diviene maggiormente tendente all’icona di gruppo quasi come una foto di gruppo statico in cui la propria figura è inserita e nella cui ampiezza si cerca di riconoscere i singoli individui e anche sé stessi. Ovvero manca quella percezione di me come soggetto insieme ad altri che mi sono accanto. Diciamo dunque in generale che non è auspicabile, anzi è sconsigliabile, un apprendimento in età scolare attraverso il computer a distanza. Se possiamo riconoscere che sono possibili alcune sessioni dell’apprendimento, come ad esempio questionari con figure, elaborati scritti, ascolto di lettura o esecuzione di calcoli aritmetici, in realtà tale genere di azioni sembrano lasciare segno mnestico di minore intensità, proprio perché i processi attentivi e di memoria necessitano del mondo relazionale e del fatto della condivisione, che riguarda il corpo e il movimento, l’essere al banco e copiare dalla lavagna, andare alla cattedra vicino alla maestra per mostrarle il compito eseguito, correggersi mentre si guarda il compagno, ridere per uno scherzo o piangere per fastidio o per un litigio. In realtà noi apprendiamo stando insieme fin da piccoli. I neuroni specchio sono neuroni motori, ovvero associati al movimento, ed essi sono appunto quelli che ci informano, attraverso la visione, delle caratteristiche mutevoli del mondo relazionale e cui noi possiamo conformarci attraverso minuscoli aggiustamenti e approssimazioni allo stimolo percepito. Questa dimensione di apprendimento speculare ad esempio non può avvenire tramite la DAD, perché nella DAD vi è l’impossibilità di percepire le micro modificazioni delle espressioni della mimica facciale, ad esempio, che sono materia prima per l’apprendimento emotivo.

Se questo è vero per i bambini in età di scuola primaria, possiamo dire che, oltre ai fenomeni descritti, altri ne scorgiamo in adolescenza, sempre relativamente alla DAD. Se col mondo infantile osserviamo che la DAD non favorisce i processi di rispecchiamento e modulazione emotiva, quindi rendendo il fanciullo un’icona dematerializzata cui non corrisponde la coscienza di essere e avere un corpo di relazione, in adolescenza si avvera con la DAD l’esperienza di remotizzazione del Sè, dovuta al distanziamento sociale che la accompagna, e il conseguente isolamento con possibili esiti depressivi. L’adolescente infatti attraversa il cambiamento per eccellenza, una trasformazione che nella ragazza generalmente avverrebbe endopsichicamente, ovvero nella costituzione di una verticalità interna relativa ad una crescita prominente della profondità del lato sentimentale e relazionale vissuto in un’ atmosfera interiore, mentre nel ragazzo il mutamento sembrerebbe più essere orizzontale con la maturazione di rapporti vissuti con l’ambiente ovvero proiettati all’esterno con azioni e interazioni espresse sul piano frontale. Naturalmente questa è una dicotomia che possiamo considerare come linea di massima e al suo interno dobbiamo altresì comprendere le innumerevoli variabili soggettive che esulano da qualsiasi classificazione di genere. Tuttavia l’inquadramento delle trasformazioni in atto nell’adolescente, che riguardano prima di tutto il corpo vissuto nel suo piano estetico, ovvero di percezione esterna/interna – perché sappiamo che la percezione interna del corpo può non corrispondere alla percezione esterna anzi possono subentrare alterazioni percettive dell’un versante sull’altro – sono la conferma di quanto sia necessario l’incontro con lo spazio dei pari e con lo spazio degli adulti. Sono due i mondi con cui l’adolescente è chiamato costantemente al confronto: il mondo dei pari e il mondo degli adulti. Entrambi questi mondi psichici e corporei debbono poter essere contattati nelle infinite declinazioni dell’incontro. Nell’incontro avviene la condivisione come esperienza e l’esperienza dell’altro diverso da sé o simile a sé. Si costituiscono così forme dell’identità che poggiano sulla possibilità di esperire quel determinato momento di relazione. Ogni momento può essere folgorante, intenso e può consentire aperture del Sè al nuovo, sia con le sfumature del piacere che del dolore. Ogni tempo vissuto si inscrive in uno spazio preciso: di fronte a scuola, a ricreazione lungo il corridoio, durante il compito in classe, all’uscita di scuola, nel tragitto per arrivarvi, durante l’assemblea d’istituto, e ogni luogo ha i suoi sguardi e i suoi avvicinamenti prossemici, i suoi distanziamenti scelti come rifugio o come risultato di un’esclusione, le sue iniziative di gruppo che ogni singolo può osservare e fare proprie o ricusare, una dimensione del gruppo che nell’adolescenza si fa più mobile. Basti guardare come un gruppo di adolescenti occupa uno spazio quando vi accede: via via si amplia l’ampiezza del suolo occupato e benchè ci si trovi a farne parte, si noterà come si è invisibili, essendo adulti, al loro circuito di sguardi che esplora infinitamente ma ha dei confini precisi di inclusione unica verso i coetanei.

Con la DAD tutto questo viene a mancare! Il vuoto di sguardi d’incontro regna sovrano, la voce diventa indizio ma non conforta, la prestazione è unico parametro e la remotizzazione apre le porte al sentimento di solitudine come il sentirsi soli sulla terra senza l’aiuto di nessuno. Già l’adolescente sperimenta profondamente questo vissuto, poiché deve affrontare la separazione dal mondo dell’infanzia per avvicinarsi al mondo adulto, che corteggia ma anche avversa per differenziarsene e passare dalla condizione di bambino-figlio a quella di giovane soggetto in grado di essere autonomo e con un proprio mondo differente dal genitore. Quindi tale dimensione luttuosa della crescita verrebbe ad essere amplificata dal distanziamento psicologico e fisico che detta la DAD, con la sua procedura di connessione telematica che non corrisponde a nessun ritmo di incontro tra esseri umani. L’isolamento può portare, nei casi gravi, ad una vera e propria sindrome riconosciuta in ambito psicopatologico : la sindrome di Hikikomori, termine giapponese che significa “ritirarsi”, evidenziata all’inizio tra i ragazzi giapponesi ma ora presente anche in occidente. Nell’hikikomori il giovane tende a vivere nella propria camera, che deve rimanere chiusa all’accesso di altri, fino a non uscirne più, mangiare e lasciare rifiuti dentro la camera, comprese le proprie deiezioni. Il quadro può essere più o meno grave di quello descritto per brevità qui sopra, ma è sufficiente per comprendere lo sfondo depressivo e di chiusura autistica in cui l’adolescente può incorrere se non osservato nel comportamento di ritiro. E’ ovvio che non è la DAD la causa dell’Hikikomori, ma è importante sapere come l’isolamento e il distanziamento siano correlati al disturbo depressivo in adolescenza e quanto importante sia il monitoraggio di alcuni parametri relazionali che abbiamo brevemente enunciato sopra.